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Inventing Anna Recensione serie TV: Una storia (quasi) vera

Sotto il vestito (firmato), tantissimo!

Shonda Rhimes è una delle sceneggiatrici e produttrici più influenti di Hollywood, responsabile quanto a scrittura o produzione di serie tv come Grey's Anatomy, Scandal, Private Practice, The Catch, Le regole del delitto perfetto, fresca del successo mondiale della furbissima serie Bridgerton. Si ripresenta al suo pubblico con un prodotto ben diverso (per fortuna), che invece che intrecci sentimentali racconta una storia ispirata a un reale fatto di cronaca.

A New York, per quattro anni, dal 2013 al '17, una ragazza, Anna Sorokin (nome "d'arte" Anna Delvey), poco più che ventenne, ha finto con successo di essere una ricchissima ereditiera, truffando amici ancor più ricchi, hotel di super-lusso e cercando di farlo anche con due banche. Sarà solo per aver cercato di truffare queste sacre istituzioni che finirà in galera e poi sotto processo e se la pena per tali imbrogli contemplava dai 4 ai 12 anni di reclusione, ne ha in realtà scontati solo due. E adesso starà facendo soldi anche con i diritti venduti a Netflix, con cui ha già pagato la multa inflitta dal tribunale. Mica stupida la ragazza, piuttosto che lavorare...

Anna si spacciava per tedesca, in realtà era di origine russa, davvero preparatissima e anche di buona cultura, fin da ragazzina aveva deciso dove mirare la sua ambizione, il mondo dei grandi ricchi. Grazie a una serie di circostanze accuratamente preparate, era riuscita ad arrivare dove voleva, attraverso una serie di conoscenze raggranellate lavorando da Purple, una rivista di moda francese. Poi, sfruttando ogni persona conosciuta come uno scalino, era riuscita ad arrivare alla contiguità con il target prefissato e da lì era decollata.

Il modello è sempre Paris.

Tutto questo senza mai dover concedere favori sessuali, non disdegnando anche frequentazioni con ragazze di rango inferiore, attratte dalla sua munificenza. Dopo essersi limitata per anni a spendere e spandere per una vita di massimo sfarzo del tutto effimero, cadrà su un progetto lodevole, concreto, cioè riuscire a creare un club privato dedicato all'arte e alla creatività in genere, su modello delle varie Soho House, in una splendida palazzina al 281 Park Avenue. Quando la sua truffa cerca di ramificarsi nel sistema bancario, poco alla volta il bluff verrà scoperto.

Possiamo dispiacerci per tanta stupidità da parte delle vittime, dell'ossequio dei ricconi nei confronti di chi sia riuscito a farsi credere loro simile e a essere accolto nel loro golden circle, delle banche che spellano vivo un poveraccio che osi chiedere pochi dollari e poi pensano di smollare milioni al primo imbroglione ben ammanicato, dell'ossequio degli hotel sempre altezzosi ma pronti a prostrarsi davanti ai VIP, di grandi immobiliaristi, architetti, designer e chef, vogliosi di commesse milionarie, di avvocati di grandi banche (nella realtà uno era celeberrimo), tutti in fondo solo ingolositi da futuri stratosferici guadagni? Possiamo?

Finiranno tutti usati uno dopo l'altro come scalini della sua ascesa grazie a conoscenze sempre più prestigiose, perché una tira l'altra, uno schema Ponzi a colpi di Instagram, in un mondo dove una Kardashian conta più di Churchill e mai mostrasi soddisfatti, mai fare un complimento, mai una lode, sempre altezzosi, al massimo un sorrisetto tirato.

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La serie ci racconta l'irresistibile ascesa della ragazza, della quale apprendiamo la storia attraverso l'indagine di Vivian una giornalista investigativa, messa però in disparte dal suo capo in una zona della sua redazione detta "Scriberia", dove si trova accomunata a tre altre gloriose carcasse, tre anziani reporter messi anche loro a fare muffa ma che si riveleranno i suoi più efficienti aiutanti. Intanto Vivian, che porterà a termine una gravidanza durante le indagini, metterà a dura prova la pazienza del marito, così come succederà all'avvocato che difenderà in tribunale Anna, che nel corso delle sue avventure era diventata anche un po' mitomane, afflitta da deliri di onnipotenza.

Da Shonda Rhimes era chiaro che non potevano aspettarci un semplice documentario e per questo motivo in forme graficamente sempre diverse, all'inizio di ogni episodio compare la scritta: " Questa storia è completamente vera tranne che per le parti assolutamente inventate". Allo spettatore scegliere, con divertimento, a quali parti credere. Inventing Anna, ispirato dall'articolo di Jessica Pressler, How Anna Delvey Tricked New York's Party People scritto nel 2018, racconta una storia che fa il paio con quella di Elizabeth Holmes, truffaldina imprenditrice della costa Ovest nel campo della tecnologia (vantava tecniche che avrebbero rivoluzionato il campo delle analisi del sangue), la cui vita è già stata narrata in un documentario HBO. Del resto il padre era vice-presidente della Enron e quindi che aspettarsi? Il frutto non cade mai lontano dalla pianta, recita la saggezza popolare

L'ambiziosa cronista d'assalto in cerca di riscatto.

Ottimi gli interpreti, un cast complessivamente perfetto. Anna è interpretata da Julia Garner, grandissima scoperta di Ozark, per la quale non è difficile prevedere una carriera in ascesa. Vivian è la simpatica Anna Chlumsky, che ricordiamo nella serie Veep. L'avvocato è Arian Moayed, notato nella splendida Succession. Ma ogni personaggio di contorno è perfetto, le tre amiche di Anna, fra cui l'affascinante Laverne Cox, il marito di Vivian e il suo capo redattore e così, per evitare elenchi troppo lunghi, nominiamo solo i tre anziani colleghi della giornalista, tre meravigliosi veterani di tante serie tv di gran livello: Jeff Perry (Scandal, Grey's Anatomy, Dirty John), Terry Kinney (Billions, Black Box, The Good Wife e anche tanti film) e Anna Deavere Smith (Nurse Jackie, For the People, Black-ish).

La serie tv dipinge con gusto un ritratto cattivo e sarcastico dei veri grandi ricchi, quelli con le case da 30 milioni di dollari agli Hamptons (solo seconde case, sia chiaro), con gli amici dalle barche miliardarie e tutta la corte di chi gravita loro intorno, una Gossip Girl (dichiarato dalla vera Anna come modello) all'ennesima potenza. Dove apprendiamo tutte le regole di ingaggio di quelli che anche se sono (o sembrano) ricchi, non lo sono quanto loro, oppure vengono graziosamente scelti per accedere al paradiso dorato grazie a meriti artistici o creativi (ma restano sempre lacchè e guai a sbagliare una virgola). Non meritano forse di essere spennati, che tanto di soldi gliene restano lo stesso tantissimi?

Dagli altari del jet set al fango della foto segnaletica.

Guardando in contemporanea anche il documentario Il truffatore di Tinder, sempre su Netflix, esce però il quadro di una società profondamente malata (e non parliamo dei riccastri). Parliamo di gente che anche quando non può, vuole fermamente illudersi di poter accedere all'empireo dei tristemente noti "happy few", nell'ostinata fede che la vita sia fatta di comode scorciatoie. Ma a cosa portano queste scorciatoie? Alla felicità? A jet privati, vestiti firmatissimi e accessori altrettanto, cocktail party con la créme dell'alta società di oggi, pranzi raffinati annaffiati da vini da 3000 dollari, suite in hotel di lusso, viaggi ("ignoranti" però) e, soprattutto, l'ossequio servile degli addetti ai lavori e l'incensamento entusiasta dei followers, perché alla fine tutto è mirato alla costruzione di un'immagine su cui far sbavare chi non ce l'ha fatta.

È questa la felicità? Del resto è la base da cui parte qualunque influencer. Sempre meglio che timbrare un cartellino, si dirà, o starsene relegato a casa in solitudine davanti a uno schermo. Così però si dimentica che chi davvero ce l'ha fatta è una percentuale minima, intorno si agita una marea di pesci-remora che da quel contatto traggono qualche beneficio, compresi altri, ricchi ma non quanto i ricchissimi, e poi c'è la massa patetica, ignorante, di chi da lontanissimo mette like e commenti e crede e spera ciecamente in quel modello di vita. In fondo tutti vogliono essere imbrogliati. Una volta c'erano le favole, oggi c'è Instagram.