It: capitolo due - recensione
Noi nutriamo il nostro Male.
Sulle macerie si ricostruisce. E sui traumi, sui dolori dell'adolescenza, sono andati avanti a vivere i protagonisti del primo film di due anni fa. La narrazione era stata nettamente divisa in due momenti ben distinti, rispetto all'intreccio che ne aveva fatto Stephen King nel suo romanzo.
Una scelta stilistica e produttiva che non aveva entusiasmato tutti, noi compresi. Ma in assenza di Cary Fukunaga (che dopo il successo di True Detective, avrebbe dovuto dirigere il primo film, e che invece aveva abbandonato per divergenze con la produzione), il regista Andy Muschietti, insieme a Gary Dauberman, riesce a riprendere i fili della narrazione così bene, da rendere agevole la visione anche a chi avesse scelto di non vedere il primo film.
E i ritratti dei componenti del Club dei Perdenti sono meno convenzionali di quelli dei ragazzini, sia per la scrittura sia per la scelta del cast adulto, che nel suo complesso lascia soddisfatti. Unica obiezione, l'eccessiva durata, due ore e 49 minuti che metteranno alla prova gli spettatori meno appassionati.
Sono cresciuti gli amici, i Perdenti. Sono cambiati dopo la parziale vittoria contro il mostro, se ne sono andati con tutte le loro debolezze, sparpagliati per il Grande Paese. Hanno dimenticato, o almeno credono. E il Male si è rafforzato, non è cambiato. Pennywise non se ne è andato dopo la parziale sconfitta e non ha dimenticato nulla: aspetta a Derry, convinto di vincere, sempre. O almeno crede.
I suoi avversari tornano, 27 anni dopo, uomini adulti che hanno messo via l'adolescenza, hanno rimosso i ricordi più brutti ma anche i più belli, per vivere nel mondo così come ci dicono si debba fare, da vincenti. Ma Derry (simbolica città inventata da King su modello della sua Bangor), con la sua apparente serenità da tranquilla cittadina di provincia, si stende su un coagulo di malvagità che ha provocato e continua a provocare lutti feroci.
Quando la mattanza ricomincia, Mike, l'unico rimasto nel paesello, richiama gli amici per la battaglia finale, definitiva. Perché quella è l'ultima occasione per tutti loro, poiché al ciclo seguente sarebbero troppo vecchi e deboli per lottare. 'It: capitolo due' ci fa ritrovare i ragazzi cresciuti e profondamente influenzati dagli eventi che sappiamo, e da altri ancora che ignoravamo e che saranno chiamati a disseppellire dalle paludi della memoria. Perché è da lì che hanno lavorato subdolamente per affossare le loro vite adulte. Soprusi, umiliazioni, violenze, delusioni e mancanza d'amore, producono danni irreparabili.
Ritroviamo Bill, che è diventato scrittore e sceneggiatore, e ha la bella faccia sempre più interessante di James McAvoy (il ragazzino era Jaden Martell). Il logorroico turpiloquente Richie di Finn Wolfhard è diventato uno sboccato stand up comedian, ottimamente interpretato da Bill Hader (una carriera in grande slancio dopo la serie Barry). L'ipocondriaco igienista Eddie (che era Jack Dylan Grazer), da adulto è il tormentato James Ransone (visto in molte ottime serie tv).
A succedere alla promettente Sophia Lillis, per Beverly troviamo Jessica Chastain, con tutto il cuore di leonessa della sua adolescenza devastata. Ben, il tenero obeso (era Jeremy Ray Taylor), è diventato un irriconoscibile figaccione palestrato (Jay Ryan), che la fisicità non protegge da nuove ferite. Il ragazzino Chosen Jacobs, che era il giovane Mike, lascia il posto a un solido ma anonimo Isaiah Mustafa. Stanley, incerto e dubbioso già da giovane (era Wyatt Oleff), trova la faccia di Andy Bean (visto in Swamp Thing). Il redivivo Henry, la carogna, il Bullo, sintesi del Malvagio per eccellenza di tutti i racconti di King, si è incarnato in Nicholas Hamilton e adesso, ancora strumento del Male, è Teach Grant.
Citiamo tutti gli attori perché compaiono nuovamente anche quelli giovani, in una serie di veloci flashback che rendono facile l'abbinamento fra i personaggi e i diversi attori. C'è poi una comparsata veloce di Xavier Dolan, per suo dichiarato amore per il romanzo, inatteso cameo di Peter Bogdanovich e lunga, gustosa scenetta con Stephen King stesso.
In un'escalation di sadica violenza, con incursioni nell'horror più classico (alcune creature sono davvero inquietanti), da prede i Nostri diventeranno cacciatori, per braccare l'odiato Pennywise là dove tutto era cominciato. Incontreranno di nuovo quel Male che permea la zona e si nutre degli abissi dell'animo umano (come da lovecraftiana ispirazione di King), e che per ciascuno assume forme, fattezze diverse per raggiungere meglio la sua vittima, perché ciascuno ha una sua personale vulnerabilità. Che il Male ben conosce.
E finalmente, nel ritratto degli adulti, nelle esitazioni, nelle paure, nelle bugie e negli strazi, sotto le maschere che tutti hanno dovuto indossare per sopravvivere, arriva al cuore il libro, quel libro che insieme a Stand By Me è una delle più belle storie di formazione scritte da King. Pazienza se, come il tormentone che nel film perseguita Bill, il finale non è bello come il resto del libro.
Autore snobbato dalla critica ufficiale, Stephen King ha saputo descrivere, meglio di molti colleghi blasonati, le vette e gli abissi della natura umana, la propensione di alcuni verso il Bene e l'irresistibile attrazione di altri verso il Male, la cui presenza, sotto forma di altri esseri umani, di creature sovrannaturali o semplicemente delle malattie, incombe da ogni angolo delle nostre fragili esistenze, trasudando da ogni luogo nascosto che ci circonda.
Saremo feriti irrimediabilmente, a volte mortalmente, non c'è possibilità di fuga. Ma possiamo, dobbiamo ribattere ai colpi del Destino con eroica capacità. Non si possono rimuovere i traumi, cancellare gli errori, purgare i peccati, nascondendoli così profondamente da dimenticarli. Mettere una pietra sopra alle proprie ferite non le farà guarire, anzi lentamente ci farà sprofondare perché il Male (il malessere di vivere) entra dalle ferite mai cicatrizzate e infetta tutto l'organismo, producendo vite distorte, malate, infelici.
Si deve tornare sul luogo del delitto, scavare, riportare alla luce e combattere, facendo piazza pulita. Perché solo abbattendo una costruzione marcia si può ricostruirla. Tutta questa fatica, tutto questo dolore per pochi decenni di vita ancora? Ne vale la pena? Sì, per se stessi e per quelli che amiamo. Certo un giorno tutti galleggeremo, ma non ancora. Non ancora.