Journey
Un fiore nel deserto…
Superate queste rovine, ci troveremo finalmente a salire il fianco di una montagna, dove ad attenderci troveremo una statua alla quale Chen si riferisce come “The Helper”, dalla quale uscirà uno spirito che evocherà una magia che creerà un glifo sul nostro vestito. Sembra una sfinge con su una maschera e lo sviluppatore stesso ci dice di non sapere bene a che serva, e che lo scopriremo noi stessi giocandoci.
Journey, con le sue musiche sospese e gli spazi sconfinati, può sembrare un titolo capace di indurre un profondo stato di solitudine., ed è proprio per questa ragione che è stato previsto anche un multiplayer, che ovviamente non poteva che essere molto particolare.
Un massimo di un giocatore potrà infatti unirsi a noi, e con esso sarà possibile portare avanti la nostra missione. Le possibilità di relazionarsi saranno comunque limitate al secondo tasto del pad (l’altro, lo ricordo, serve solo per saltare), che verrà utilizzato unicamente come richiamo.
Non sarà quindi possibile parlarsi con le cuffiette né chattare: noi e il nostro sconosciuto compagno di viaggio potremo interagire unicamente chiamandoci l’un l’altro, quasi fossimo tornati ai tempi di ICO. Il sistema, a ben guardare, riesce quindi da un lato a non farci sentire più soli, dall’altro a farci sentire ugualmente circondati dall’incomunicabilità.
Sarà possibile affrontare in multiplayer alcuni livelli o l’intero gioco, la qual cosa ci porta alla considerazione che l’intera campagna non dev’essere poi molto lunga, se è affrontabile tutta d’un fiato in co-op. A esplicita domanda Chen ha risposto infatti che il titolo dovrebbe durare due o tre ore al massimo, così come Flower. Un po’ poco, anche se stiamo parlando di un prodotto scaricabile dal PSN…
Questa considerazione mi ha portato a domandare quali possano essere i motivi che spingano un eventuale acquirente a rigiocarsi Journey. La risposta, un po’ piccata, è stata che ognuno dovrà cercare dentro se stesso la ragione per tuffarsi di nuovo degli eterei deserti creati da ThatGameCompany. Perché lo scopo ultimo non è il gioco ma l’esperienza.
Concludendo, Chen e soci si dimostrano ancora una volta affabulatori, capaci di catturare l’attenzione della stampa con presentazioni illuminate e abili strategia basate sul vedo e non vedo. Il loro pedigree non ammette dubbi: se qualcuno può riuscire a fare qualcosa al di fuori dell’ordinario, questi sono senz’altro loro. Eppure, pensando a quello che ci aspetterà con Journey, la paura è che per ThatGameCompany la voglia di sperimentare sia più importante di ogni cosa.
Un dubbio, questo, che potremo dipanare solo quando il gioco sarà pronto.