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Journey to the Savage Planet - recensione

Uno stralunato viaggio nello spazio che strizza l'occhio a Futurama.

Spazio, ultima frontiera. Un sogno per una miriade di uomini e donne che diventa realtà per pochissimi e noi facciamo parte proprio di quella manciata di fortunati pronti a trasformarsi nei pionieri del nuovo millennio e a spingersi al di là della galassia conosciuta fino a toccare i confini dell'universo.

Insomma, è vero che lo faremo con la quarta miglior compagnia di esplorazione interstellare al mondo ma non è il caso di fare gli schizzinosi, un sogno rimane un sogno anche se è tenuto insieme da qualche pezzo di nastro adesivo di troppo e se l'equipaggiamento e il carburante per il ritorno sono stati sacrificati semplicemente per riuscire a decollare. Non guardiamo il pelo nell'uovo no? Lavoriamo pur sempre per l'istrionico e geniale Martin Tweed e per l'"avanzatissima" Kindred Aerospace.

Siamo gli uomini del domani alla ricerca di un nuovo pianeta da colonizzare e anche se AR-Y 26 sembra più un'esplosione rocciosa che un pianeta in tutto e per tutto, potremmo essere proprio noi i grandi esploratori che verranno ricordati da generazioni e generazioni. Questo oppure moriremo su un pianeta lontano abbandonati a noi stessi. Ma questi sono dettagli, l'importante è tuffarsi a capofitto in una nuova e colorata avventura, quella che potrebbe partorire la mente di un ragazzino che con occhi sognanti immagina un futuro tra viaggi spaziali e fantascienza.

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Questo è proprio uno dei concept centrali di Journey to the Savage Planet, primissimo progetto di un team non certo nato da un'idea sgangherata di un paio di novellini. I tre cofondatori sono, infatti, ex Ubisoft, EA e Warner Bros. Games Montreal e a spiccare è in particolare il nome di Alex Hutchinson. Un veterano che ha impresso il proprio nome in due franchise di punta di Ubisoft ricoprendo il ruolo di director di Assassin's Creed III e Far Cry 4.

Una persona che quindi sa bene cosa significhi sviluppare un AAA ma che in questo caso ha cercato di ritagliarsi un posticino confortevole tra quelli che di questi tempi potrebbero essere etichettati come Indipendent AAA. Una definizione perfetta per un gioco certo ambizioso ma evidentemente più contenuto sia a livello di risorse a disposizione per lo sviluppo che a livello di struttura del mondo di gioco.

In parole povere Journey to the Savage Planet è un'avventura in prima persona che guarda agli insegnamenti di Metroid Prime per confezionare sapientemente in un unico pacchetto una spolverata di elementi da FPS ed RPG e tanta voglia di esplorare e sperimentare. Un pacchetto venduto a €30 e in grado di impegnare per circa 10-12 ore coloro che decideranno di puntare dritti verso il finale e per diverse altre ore chi invece non potrà fare a meno di scoprire tutti i segreti di questo misterioso pianeta.

Potevamo forse perdere l'occasione di essere un uomo che guaisce come un cane?

Noi abbiamo passato circa 14 ore in compagnia di un gioco che sin dalla presentazione spensierata non si prende troppo sul serio ma anzi si appoggia su uno humor sopra le righe ma sempre gradevole, ironico e in grado di tratteggiare una satira non troppo seriosa ma sufficientemente tagliente sull'industria videoludica e sull'umanità tutta. I filmati di intermezzo dello stralunato CEO di Kindred Aerospace, Martin Tweed, gli spot dei prodotti più impensabili e la stessa IA che ci accompagna, EKO, ci hanno strappato più di un sorriso arricchendo e soprattutto infondendo personalità in una narrativa che non brilla per qualità o originalità eccelse ma che presenta immediatamente un mistero che riesce a reggere per tutta l'avventura.

Quando a pochi minuti dall'atterraggio ci siamo trovati di fronte a una misteriosa torre che di naturale sembra avere ben poco, abbiamo immediatamente fatto la conoscenza con il primo motore centrale del nostro avanzamento tra i diversi biomi tratteggiati dalla software house canadese. Intorno a questo mistero ruota l'intera anima di una produzione che vuole trasmettere con efficacia la sensazione di essere degli esploratori che si trovano di fronte un ignoto tutt'altro che spaventoso ma colorato, divertente, affascinante e profondamente strambo. Siamo astronauti, cartografi, scienziati, biologi e ovviamente avventurieri.

Con uno scanner attivabile premendo l'analogico destro possiamo catalogare tutto l'alieno che ci circonda, scoprendo piante utili o pericolose, prede o predatori, risorse e segreti. Andare alla ricerca di collezionabili e di oggetti utili diventa così una scusa per tuffarsi nel vuoto rischiando ancora una volta una caduta rovinosa nel nulla. Oppure perché non testare quella strana melma in grado di trasformarsi in una sorta di blob rimbalzante? E i propulsori che abbiamo appena montato sugli stivali? Quelli non vuoi provarli?

Un pianeta disabitato dicevano. Kindred Aerospace è un impiego sicuro dicevano.

Journey to the Savage Planet è prima di tutto un'esplorazione scanzonata dell'ignoto e un continuo progredire verso nuove abilità che in pieno stile metroidvania ci permettono di avanzare verso l'obiettivo finale ma anche di tornare sui nostri passi tuffandoci in aree prima inaccessibili. Il rischio di "perdersi" a caccia della risorsa o del collezionabile/segreto di turno è estremamente forte ma è, in fondo, anche il bello di questo genere di giochi. Ed è così che dal nulla ci si ritrova a intestardirsi su quel salto apparentemente impossibile calcolando al millimetro la posizione della melma su cui rimbalzare solo perché in lontananza c'è una strana luce bluastra che profuma d'avventura.

L'opera prima di Typhoon Studios evidenzia chiaramente perché Google abbia deciso di acquisire questo team nonostante si trattasse di una compagine che a conti fatti non aveva ancora dimostrato nulla. Hutchinson e soci si dimostrano indubbiamente talentuosi e capaci di far spiccare con decisione i punti forti del loro lavoro nonostante alcune mancanze che iniziano a trapelare dopo la meraviglia e la sorpresa iniziali.

Il ritrovarsi a prendere lentamente confidenza con risorse sconosciute che con il tempo diventano gadget imprescindibili e materia prima per creare miglioramenti attraverso la stampante 3D della nostra navicella, il Javelin, è un elemento che fa sempre la sua sporca figura. Anche quando ci si avvia verso il finale e le ultime abilità ottenibili non spiccano per importanza come altre, la voglia di scoprire qualcosa di nuovo rimane una costante inscalfibile e sempre appagante. Il tutto legandosi a doppio filo a un'esplorazione che con l'aumentare di gadget e risorse cresce anche in complessità e difficoltà, evidenziando con sempre maggiore decisione una centralità di un'anima del gameplay inaspettata prima della nostra prova con mano.

Le boss fight e lo shooting non spiccano particolarmente per originalità. Journey to the Savage Planet è una piccola gemma ma non tutto luccica.

Journey to the Savage Planet è infatti molto più platform di quanto intuibile inizialmente a causa di uno sviluppo spesso in verticale delle mappe dei vari biomi (divisi in zone raggiungibili anche attraverso teletrasporti sbloccabili) e di un ruolo preponderante di due gadget come i propulsori degli stivali del nostro alter ego e il rampino. Sono probabilmente questi due oggetti le vere star del gameplay il cui costante miglioramento è cruciale per godere a pieno del level design e delle chicche nascoste negli anfratti più angusti di AR-Y 26. Sia chiaro, ogni abilità ottenuta ha in qualche modo un ruolo tra l'avanzamento dell'avventura e la ricerca di risorse e segreti ma nulla spicca quanto il rampino e i propulsori.

Anche la pistola, che a conti fatti è il primissimo strumento ottenibile e che è dotata di una sezione di miglioramenti dedicata, non riesce a rivelarsi altrettanto centrale nonostante si riveli fondamentale sia nella risoluzione di certi puzzle sia nei combattimenti. Quei combattimenti che probabilmente sono il tasto dolente più evidente dell'opera di Typhoon Studios. Journey to the Savage Planet non è di certo un metroidvania che pone enfasi sugli scontri a fuoco ma tra creature aggressive e boss fight le sezioni da FPS sono sostanzialmente inevitabili.

A nostro parere sono proprio questi i momenti in cui l'inventiva degli sviluppatori è venuta leggermente meno dato che ogni scontro si risolve col colpire le protuberanze gialle dell'avversario di turno, ovvero i classici punti deboli visti e rivisti in una marea di giochi. In questo non c'è di certo nulla di negativo a priori ma neanche il level design, i gadget a nostra disposizione e il pattern degli attacchi nemici riescono a risollevare scontri piuttosto piatti e tutto sommato non particolarmente impegnativi.

La varietà delle ambientazioni è molto piacevole soprattutto nelle prime fasi. La sensazione di costante scoperta e varietà viene meno, almeno in parte, nei biomi più avanzati.

Una sorta di piccolo spreco considerando lo strambo design delle creature da combattere ma anche quello delle creature semplicemente osservabili pacificamente. Hutchinson d'altronde era il lead designer di Spore e probabilmente la voglia di plasmare degli organismi che non passino inosservati è rimasta intatta e ha dato più di una mano.

Ad arricchire ulteriormente l'offerta di gioco troviamo poi diversi esperimenti da portare a termine, delle piccole sfide che ci permettono di diventare degli esploratori provetti e di sbloccare ulteriori miglioramenti. Si passa dal dimostrare la nostra abilità con il karate (ovviamente) al cercare di raccogliere dei campioni da varie creature vive, anche quelle non propriamente amichevoli. Un diversivo in definitiva sicuramente meno riuscito dell'avventura principale o della pura esplorazione in grado di svelare ulteriori dettagli del lore.

Le scoperte e l'esplorazione vanno di pari passo con il miglioramento di equipaggiamento e l'apprendimento di nuove abilità. Una spolverata di RPG.

Una chicca non imprescindibile ma interessante che, come tutto il resto del gioco, può anche essere vissuta in co-op online con un amico (una feature che non abbiamo potuto testare con mano ma che si rivela l'ennesima aggiunta non fondamentale ma molto gradita).

Alle piccole magagne derivanti dai cliché della struttura da metroidvania e a quelle più serie delle fasi shooting si aggiungono poi una manciata di glitch o bug piuttosto trascurabili e una gestione degli indicatori degli obiettivi non sempre chiara e facilmente leggibile tra le missioni principali e i compiti secondari.

Sono comunque problematiche che non rovinano di certo un'avventura forse non estremamente impegnativa nei contenuti principali ma divertente, spensierata e in grado di farci sentire davvero dei pionieri sperduti su un affascinante pianeta alieno pieno zeppo di misteri e imprese eroiche degne della migliore compagnia di esplorazione interstellare della Terra. Pardon! Della quarta migliore.

8 / 10