Jurassic World – Il Dominio Recensione, un film per divertirsi senza pensieri
Tocca convivere con i mostri, specie se li abbiamo creati noi.
Come eravamo, nel 1993? Con chi eravamo andati a vederlo Jurassic Park, il primo “film dei dinosauri”: da soli, con amici, con partner (saranno ancora gli stessi?) o con qualche figlio? Oggi potremmo andarci con dei nipoti. O addirittura eravamo noi i figli?
A fianco di chi ci siamo divertiti (o spaventati, dipende dall’età) e dove lo abbiamo visto: sul grande schermo di un cinema o dal divano del nostro soggiorno in TV? Tanti interrogativi vengono in mente quando si va avanti a seguire una saga nata quasi 30 anni fa.
Geniale idea di Steven Spielberg, la serie Jurassic Park era tratta dal libro di quell’altrettanto gran genio di Michael Crichton. Il primo film ha detenuto il record di incassi fino a quando è stato superato da Titanic nel’97. Sono seguiti 5 film, due come Jurassic Park, nel ’97 e nel 2001, per poi passare al Jurassic World, “ripresa” del 2015, seguito da Jurassic World – Il regno distrutto nel 2018 e adesso dall’ultimo capitolo Jurassic World – Il Dominio.
In quest’ultimo l’idea geniale è stata raggruppare i due cast della saga, Sam Neill, Laura Dern e Jeff Goldblum dalla prima serie, e Chris Pratt e Bryce Dallas Howard della seconda (Goldblum era ricomparso in un cameo in JW 2). L’elemento in comune è il genio deviato del Dottor Wu, senza il quale nulla di tutto questo sarebbe mai successo. A legare il tutto troviamo i sempre meravigliosi dinosauri, per i quali nella vita quasi tutti i bambini e le bambine hanno nutrito una passione divorante, per la felicità anche dei musei di storia naturale.
Jurassic World – Il Domino è dunque il seguito diretto del Regno Distrutto che si chiudeva sul dilagare dei dinosauri nel nostro pianeta, mentre a ruggire verso il tramonto non era il solito caro T-Rex, bensì Blue, l’altrettanto amato velociraptor. Ma l’atmosfera era cupa, di minaccia incombente, perché l’uomo l’aveva davvero fatta grossa. Se già Dio quando ha creato l’uomo non ha pensato alle conseguenze, quando l’uomo si è messo a fare Dio, combinando DNA diversi, ha fatto di peggio, animato non da nobili fini ma dal lucro.
Che nei primi film era un lucro “pulito”, legato allo spettacolo, all’esibizione di meravigliose creature estinte in una specie di fiabesco parco dei divertimenti, poi però ha degenerato là dove l’umano va sempre a finire, nel traffico illegale tanto per accumulare soldi, infischiandosene delle conseguenze. Se vendi un “prototipo” di dinosauro assassino per milioni di dollari ad acquirenti di cui ti importa solo la ricchezza, ignorando volutamente l’uso che ne faranno, cosa aspettarsi?
Questa volta non si torna a Isla Nublar, distrutta da un’eruzione vulcanica con cui la Natura aveva ben pensato di ripulirsi da soggetti che essa stessa non aveva contemplato, non in questo momento storico per lo meno. Un prologo in forma di documentario ci informa che, quattro anni dopo il film precedente, i dinosauri si sono diffusi dappertutto e condividono la vita quotidiana con gli esseri umani, creando qualche problema di convivenza (ma pensavamo peggio, dato che alcuni esemplari erano finiti in mani davvero poco raccomandabili).
Le specie più voluminose e aggressive sono state contenute, grazie a una virtuosa multinazionale che si chiama Biosyn, che in una vasta vallata delle nostre Dolomiti ha creato una specie di santuario, con fini virtuosissimi di solo studio. Con le altre specie l’umanità ha trovato modo di interagire, pur con qualche incertezza.
Ma una nuova piaga sta per abbattersi dai cieli: orde di cavallette, grandi però come gatti, divorano i raccolti dei poveri agricoltori del Mid-West. Non si avventano su tutti i campi, solo su quelli che non sono stati seminati con i prodotti di una multinazionale dell’agricoltura. E indovinate, gente, indovinate qual è quest’azienda?
Parte del vecchio cast viene a questo punto coinvolto in uno dei filoni della narrazione. Intanto ritroviamo Claire e Owen, che si sono ritirati a vivere nel nevoso Nevada, insieme a Maisie, la ragazzina erede del miliardario ammazzato dal suo bieco assistente nel film precedente, rimasta da sola. Maisie nasconde dei segreti nel suo patrimonio genetico che la rendono particolarmente sensibile nei confronti di altre specie create in laboratorio, ma non per questo meno “vive” e degne di rispetto.
La ragazzina è assai ambita dai trafficanti di dinosauri, proprio per la sua mutazione che la accomuna a Beta, il figlioletto che il velociraptor Blue ha concepito in partogenesi. L’avventura dagli USA si sposta a Malta (centrale del mercato nero dei dinosauri, dove ricompare Omar Sy) e poi fra le nostre montagne (ricreate in parte in studio), dove avverrà l’incontro fra i vecchi e i nuovi protagonisti, tutti alleati contro i soliti biechi piani del solito CEO psicotico (modellato sui tic di tanti noti tycoon), ossia quel Lewis Dodgson (Campbell Scott) che già cospirava nel primo Jurassic Park.
Ormai dai dinosauri abbiamo spremuto tutto, oltre al DNA, ed è quindi giusto concludere la saga. Anche perché era difficile continuare a forza di colpi di scena prevedibili, tutto un “mordi (i dinosauri) e fuggi (gli umani)”, pur sempre godibili dal punto di vista del puro intrattenimento. Vincente è stata l’idea di chiudere mettendo insieme i cast delle due diverse serie, composti da attori (e personaggi) che hanno saputo conquistarsi le simpatie del pubblico, nel corso della loro evoluzione.
Sam Neill torna con il suo Alan Grant, archeologo un po’ misantropo, teneramente imbranato in campo sentimentale, quasi una citazione di Indiana Jones. Laura Dern è la biogenetista Ellie Sattler, una luminare in laboratorio, un’adolescente imbranata nella vita privata pure lei. Jeff Goldblum è il Dottor Ian Malcolm, quello che sui dinosauri si interrogava “perché devono essere sempre più grandi?”, ma sempre senza scomporsi. Qui Glodblum dilaga con la sua carismatica coolness.
Bryce Dallas Howard, che i tacchi alti del primo film ormai li ha del tutto abbandonati, è l’ecologista per espiazione dei peccati che sente di aver commesso quando dirigeva il parco. Chris Pratt, “l’uomo che sussurrava ai dinosauri” e comunica quasi telepaticamente con i Raptor, qui, come nel secondo film, viene costretto a una serietà che poco gli si addice: lo preferiamo più pasticcione anche se sempre eroico (e innamorato). Il “cattivo” questa volta è affidato a Campbell Scott, già fuggevolmente comparso nel primo film, che subirà una simpatica legge del contrappasso, per chi se lo ricorda.
Il Dottor Wu invece fa la sua figura migliore di sempre, invecchiato e amareggiato. La ragazzina Maisie è sempre un po’ indisponente, come lo sono obbligatoriamente gli adolescenti almeno nei film e nelle serie tv americane. Fra le new entry segnaliamo Mamoudou Athie, faccia nota da molte serie televisive, e la volitiva pilota di cargo aerei DeWanda Wise, quasi una Han Solo al femminile, dalla presenza che si fa notare.
Finito nel 2020 e messo in frigo per distribuirlo oggi, il film è costato circa 165 milioni di dollari, ricco di animatroni oltre che di CG, con la colonna sonora di Michael Giacchino a riprendere temi storici. La storia è scritta da Colin Treworrow (che anche dirige per la seconda volta) e Derek Connolly, mentre per la sceneggiatura si è fatto ricorso alla quasi esordiente Emily Carmichael (una serie tv non pervenuta e Pacific Rim: La rivolta). Steven Spielberg è sempre presente come produttore esecutivo.
Questa fusione dei due cast renderà assai felici gli appassionati dei primi film, che però nel frattempo hanno fatto in tempo ad affezionarsi anche ai nuovi interpreti. Nonché ai nuovi dinosauri, perché la seconda serie ci ha reso ancora più famigliari soggetti come il T-Rex e il meraviglioso Blue, velociraptor ormai di famiglia. Ma c’è anche una fusione di generi, un po’ Bourne in un inseguimento, un po’ western nella parentesi del Nevada, un po’ commedia romantica per le interazioni fra le due coppie, quasi 007 per alcuni combattimenti e inseguimenti.
Jurassic World – Il dominio, film per divertirsi senza pensieri abbandonandosi al gioco, ci lascia con un messaggio edificante. Errori ne abbiamo commessi, riconosciamoli. Smettiamo però di farli, smettiamo per favore. E impariamo a convivere con le conseguenze. Il che vale in tanti campi, politici, sociali e personali.