La città open world di Mirror's Edge Catalyst non ha eguali - articolo
Candida e visionaria.
Anni fa, la sede di EA nel Regno Unito era un edificio a Chertsey, opera dello studio di architettura Foster and Partners, e aveva un sacco di caratteristiche interessanti. Tanto per cominciare c'era un grande fossato pieno di anatre, o forse erano cigni, e la parte frontale della struttura era mobile. Guardandolo all'alto, poi, si scopriva che l'edificio sembrava una grande lettera E. Electronic!
Dentro sembrava di stare nel covo di un cattivo da film, ovviamente, visto che è stata costruita negli stessi anni dell'apocalittica spirale in cemento della stazione di Westminster, a Londra. Le finestre irregolari rendevano impossibile prevedere da quale direzione sarebbero scese le tapparelle elettriche che bloccavano la luce dal riflettersi su scheletriche rampe di scale e superfici scure. Insomma, un'ambientazione tanto suggestiva da essere finita in Inception, e nella serie TV Jekyll, ovviamente per evocare un certo disagio, qualcosa di quasi irreale. EA non ci lavora più, ma quel mausoleo travestito da edificio c'è ancora.
Ho passato gli ultimi giorni esplorando un altro incontro tra Electronic Arts e architettura e, anche se questa volta Foster and Partners non c'entrano, ho ritrovato forme astratte e atmosfere da base della Spectre. Forse si tratta di nuovo di un'architettura un po' strana, magari che non riesce nemmeno a soddisfare al cento percento la sua funzione, ma mi sono innamorato di Mirror's Edge Catalyst, finalmente approdato su Steam con il suo carico di corse, salti, tuffi e scivolate.
Ricordate quando EA ha annunciato il seguito di Mirror's Edge dicendo che l'algido simulatore di parkour a firma Dice sarebbe diventato open world? Io ricordo di aver pensato che per quel gameplay sarebbe servito un open world come nessun altro. Il primo episodio, del resto, era decisamente agli antipodi di un mondo aperto, e non era subito facile immaginare come avrebbe funzionato il cambio di approccio. Nel primo capitolo ogni livello era un piccolo puzzle di design urbano, assolato e candido, fatto di superfici quasi di gesso all'esterno, e confuse negli interni.
A me quelle atmosfere piacevano parecchio. Mi piaceva anche perdermi negli uffici e non riuscire a trovare l'uscita, ma mi rendo conto che non è certo un'esperienza per tutti, cosa che probabilmente non si sposa molto bene con l'approccio di un'azienda come EA. L'idea di espandere questi spazi verso l'esterno senza perderne l'ingarbugliamento, di renderli aree open world dove esplorare e tornare più e più volte, deve aver causato più di qualche mal di testa ai level designer. Il primo Mirror's Edge era composto da livelli che davano l'impressione di essere connessi tra loro, ma farli davvero connettere è tutto un altro paio di maniche.
Il colpo di genio di Catalyst, ed è un colpo di genio nonostante la tiepidissima risposta di pubblico e critica, è che i suoi spazi sono sì connessi tra loro, ma al tempo stesso danno l'intenzione di nascondere connessioni ancora più profonde e inaccessibili. Tetti, viuzze, scale, condotti e suite lussuose per metà all'aperto. Grondaie, cassonetti, ventole da rallentare per passarci attraverso. Una città di vetro bellissima e deserta con un cielo che sembra un rendering dal futuro. Una città di sentieri e percorsi, ma anche una città di superfici.
Mi ha stupito il numero di volte che mi sono ritrovato a fissare una superfice davanti a me. Ci sono finestre, ovviamente, che permettono di sbirciare su uffici sterili, ma ci sono quelle ventole che permettono di sbirciare verso quello che c'è dall'altra parte. E le pavimentazioni, signori, che pavimentazioni! Ci sono volte che guardi verso il basso e vedi attraverso grazie a grate o pannelli di metallo forato o materiali plastici e trasparenti che sembrano usciti dall'Enterprise firmata da J.J. Abrams. Guardi verso il basso e vedi stanze che non sai come raggiungere (e se puoi farlo), spazi dove nascondersi che potrebbero essere accessibili o inaccessibili.
E poi si guarda in alto. Di nuovo c'è un bianco opprimente a dominare la città, ma è un bianco che acquista la sua totale bianchezza attraverso i grigi e i blu e i riflessi e tutti quei colori che non sono affatto bianchi. La città è protagonista: fredda, brusca, cattiva. Ma più si procede e più si trovano missioni che portano fuori città e dentro giganteschi computer. Forse il messaggio è che la città stessa è un computer, con umani al posto degli elettroni? Di sicuro c'è che quei pochi umani che si incontrano non sembrano particolarmente a loro agio intrappolati in stanze che sembrano non avere entrate o uscite.
Quest'ambientazione così asettica è sorprendentemente divertente. Sembra di stare dal dentista a volte, ma le architetture invitano a saettare senza fermarsi. La missione migliore è quella che chiede di salire su un grattacielo per rimuoverne un pezzo. È quel momento nel gioco in cui si impara la svolta rapida, quella mossa che magari si poteva ignorare fino a quel momento ma che di colpo diventa evidente collante tra tutte le altre. Sembra di stare in Burnout Paradise quando si disegna un percorso perfetto attraverso un mondo che viene incontro rapidissimo e sempre a un passo dall'impatto. Di colpo si scopre che le tubature sono lì apposta per permetterci di cambiare direzione in un batter d'occhi e gli oggetti rossi da seguire si allineano così perfettamente che ci si dimentica di essere in un gioco che parla di ribellione facendoci seguire una linea retta.
E poi si atterra, e l'atterraggio si sente. Il momento dell'impatto è reso ottimamente con quel tremito e lo sguardo sulle mani a metà strada tra la telecamera e i pavimenti realizzati splendidamente. Sono fermate improvvise, ma necessarie. Sono il prezzo da pagare per mantenere credibili le corse a perdifiato, e anche loro sono saldamente incastonate nel design della città.
Quando il flusso d'azione s'interrompe, però, Mirror's Edge Catalyst è la cosa più vicina a quei sogni dove vuoi fare qualcosa di semplice ma non ci riesci. Magari devi aprire una porta, o mettere il PIN del cellulare ma continui sbagliare, dimentichi i numeri, o ogni numero ti porta via un'eternità. Capito la sensazione? Però, tra una missione e l'altra, quando si va a caccia di collezionabili per la città, è quasi piacevole perdersi nell'incubo. È divertente correre senza sosta, in alto, in basso, per una città definita da un sistema di controllo che vuole solo farci pensare a dove saremo tra un attimo sull'asse verticale.
E la cosa strana è che i rimandi a posti del mondo reale non mancano, molto più che in giochi meno stilizzati. Magari è proprio questa riduzione al minimo a funzionare. San Adreas è Los Angelese e solo Los Angeles, Crackdown 3 sembra la periferia di Londra, ma il vuoto della città candida di Catalyst fa venire in mente una qualsiasi estate tra le vie deserte, o una passeggiata di notte lungo un fiume, non importa esattamente dove. Sarebbe interessante sapere cosa avessero in mente i designer (una presenza invisibile ma costantemente percepita nel gioco, non sempre benevola), a quali immagini o libri stessero pensando e se magari ne abbiamo qualcuna in comune. Penso al piano di Lloyd Wright Jr di trasformare il quartiere losangelino di Bunker Hill in uno spazio interamente circondato da mura, con percorsi a varie altezze divisi per mezzo di trasporto così da far sentire la presenza del traffico e nasconderlo allo stesso tempo. Molto Mirror's Edge come approccio.
Quello che la città virtuale del gioco ha, e che non sembra rimandare a nient'altro, è quell'impilarsi di livelli su livelli: non-vetro, non-grate, non-plastiche, e sotto di loro scorci di un mondo nascosto. E sopra, nel cielo, quella texture lucida e cigolante che ora diventa chiaramente collante per il tutto senza però renderlo completamente leggibile.
Tutta la città, e tutto quello che contiene, è immersa in quest'atmosfera lucida. Plastica? Cemento? Schiuma? Non è mai chiaro. I materiali sono sempre ben realizzati, ma c'è qualcosa sopra che li rende quasi caramellosi, qualcosa di indecifrabile. Qualcosa di cui innamorarsi.