La difficoltà nei videogiochi può essere un ostacolo? - editoriale
Sekiro scatena un dibattito internazionale.
La scorsa settimana, più di una voce autorevole si è sentita chiamata in causa nel corso della gigantesca discussione fiorita attorno a Sekiro: Shadows Die Twice, l'ultimo lavoro di From Software firmato da Hidetaka Miyazaki. Nei giorni successivi alla release, infatti, alcuni recensori e una buona fetta dell'utenza hanno sposato una causa comune: quella di domandare a gran voce un selettore della difficoltà, dal momento che l'opera sarebbe troppo complessa per essere fruita dal grande pubblico.
Così, sono tornate al centro dell'attenzione mediatica una serie di domande che da circa trent'anni riaffiorano costantemente nei confini del medium: la difficoltà può pregiudicare il divertimento? Il livello di sfida è parte integrante del game design? È giusto lasciare nelle mani del videogiocatore la possibilità di decidere come fruire del prodotto?
Diverse personalità al centro dell'industry hanno voluto dire la loro. Cory Barlog, game director dell'ultimo God of War, ha affermato che il livello di accessibilità non è mai stato e non sarà mai un limite alla sua visione autoriale del videogioco. JP Kellams, creative producer di Platinum Games al lavoro sul brand di Bayonetta, si è dimostrato meno stoico riguardo l'argomento, dichiarando che "la modalità più facile di Bayonetta non pregiudica assolutamente il livello di sfida della difficoltà Platino Puro" e aggiungendo: "la presenza della modalità facile non rovina l'esperienza dei giocatori hardcore: nessuno si è lamentato della sua esistenza con il team".
Già, perché alla base della discussione c'è quello zoccolo duro di fan del lavoro di From Software che si sentono offesi da una simile proposta, che prendono l'ipotetica iniziativa come un insulto al lavoro di Miyazaki e come un distacco dalla filosofia creativa nata con Demon's Souls. E qui è entrato in gioco Steven Spohn, scrittore e giornalista della fondazione The Able Gamers, che da anni si batte per rendere i videogiochi più accessibili per le persone disabili e che è intervenuto così sull'argomento: "Stiamo dimenticando perché sono stati inventati i livelli di difficoltà: i videogiochi devono essere divertenti, e il selettore permette a ciascuno di determinare cosa sia, per lui, divertente".
Ha poi risposto sonoramente ai fan più accaniti del lavoro di From: "Il vostro godimento di un gioco in single player NON viene pregiudicato dal modo in cui altri scelgono di vivere l'esperienza". Insomma, ogni attore intervenuto nel dibattito ha messo sul piatto una visione profondamente diversa tanto del concetto di accessibilità quanto dei motivi che spingono il videogiocatore a scegliere un livello di difficoltà più basso.
C'è però un problema che nessuno sembra aver preso in considerazione: Sekiro, così come tutte le opere di From Software, non ha alle spalle un design che permette il tradizionale approccio ai livelli di difficoltà. Le opere di Miyazaki non sono complesse perché il nemico dispone di numerosi HP o infligge danni devastanti; non siamo di fronte ad un titolo come Halo, in cui qualche semplice modifica ai numeri celati dietro al 'damage output' può dar vita a quattro diverse modalità di gioco. La difficoltà dei 'soulsborne' poggia le sue fondamenta sui moveset degli avversari, sul level design, sui tempismi e sulla gestione delle risorse.
Sfatiamo un altro mito: i titoli di From Software non sono dei 'trial and error'. Non si tratta di esperienze impossibili fin dal primo impatto, non sono assolutamente paragonabili alle punitive MOD cresciute attorno a Super Mario World. Una volta superata la pur ripida curva di apprendimento, ogni boss incontrato nel corso di un Sekiro o di un Dark Souls qualsiasi può cadere al primo tentativo, se si giocano bene le proprie carte. Una volta interiorizzato il sistema di combattimento, si torna indietro e ci si trova a ridere di fronte a quegli stessi nemici che sembravano invincibili.
Ha voluto dire la sua anche LimitlessQuad. Chi è questo sconosciuto videogiocatore? LimitlessQuad è un player affetto da tetraplegia, ovvero la paralisi di tutti e quattro gli arti, che ha espresso un parere fortemente negativo riguardo l'inserimento di una modalità facile all'interno di Sekiro. Ha sottolineato come il senso di soddisfazione sia la base delle opere di From Software, e come, soprattutto, sia sbagliato aggrapparsi alle disfunzioni motorie per discutere la questione. Il ragazzo, infatti, ha allegato un video, con tanto di telecamera che inquadra il gamepad, in cui sconfigge senza problemi la Vera Monaca Corrotta, uno dei nemici più avanzati del gioco.
Insomma, dopo questa ulteriore testimonianza siamo più che mai convinti che il dibattito sia un tipico caso di confusione tra il concetto di difficoltà e quello di curva di apprendimento. Proprio per questo motivo, a nostro parere, il miglior livello di difficoltà in un videogioco è nessun livello di difficoltà. Ed è evidente fin dalle prime generazioni di console: pensate a Super Mario Bros, a The Legend of Zelda: A Link to the Past, a opere come Metal Gear e Final Fantasy, culminate anni dopo nella rivoluzione portata da From Software. Solitamente, il mondo immaginato dai game designer offre il meglio di sé quando giocato secondo la visione dei creatori.
Non bisogna dimenticare che il concetto di difficoltà nel videogioco risale all'epoca arcade, momento storico in cui la sconfitta del giocatore portava un maggior guadagno al proprietario della macchina. Con la scomparsa di questa funzione, il livello di sfida è entrato a pieno titolo fra le scelte indipendenti alla base del design e si è dimostrato più che mai necessario: non è un caso, infatti, che New Super Mario Bros. 2 sia considerato di gran lunga il peggiore dell'intramontabile serie.
Senza nulla togliere, ovviamente, a quei titoli che per primi hanno portato alta la bandiera del selettore di difficoltà, su tutti Silent Hill, che addirittura ne metteva a disposizione uno dedicato esclusivamente agli enigmi. Anche il recente Shadow of the Tomb Raider, ad esempio, ha messo sul piatto numerosi selettori distinti, al punto da mutare ogni sfaccettatura dell'esperienza a seconda del livello di sfida desiderato. D'altro canto, non possiamo ignorare come la maggior parte delle opere che offrono una simile feature possano contare su un design che ne rende possibile l'inserimento grazie a qualche semplice aggiustamento del codice di gioco.
È proprio questa filosofia ad aver generato i cosiddetti nemici "bullet sponge", quelli che tendono ad assorbire migliaia di proiettili senza minimamente vacillare, divenuti la normalità nella maggior parte dei videogiochi cooperativi online. Allo stesso modo, sono nate quelle meccaniche di "oneshotting" che costituiscono la spina dorsale della modalità veterano su Call of Duty, e che ormai hanno fatto capolino in tutti gli sparatutto in prima persona. Quella dell'inflazione numerica degli HP e dei danni dei nemici è un'applicazione che si è fatta largo fino a raggiungere titoli come The Witcher 3, Uncharted 4 e Skyrim.
Si tratta di elementi che, proprio come in Super Mario Bros. e Mega Man, non trovano spazio in un videogioco come Sekiro: Shadows Die Twice, che vede l'automiglioramento e il senso di achievement quali radici profonde alla base del game design, quali mura incrollabili che proteggono l'opera dalle ingiustizie e dalla sensazione di inevitabilità. I lavori di From Software premiano chiunque abbia la volontà necessaria per scalare la ripida curva di apprendimento, nello stesso modo in cui gli immersive simulator regalano emozioni incredibili solamente a chi scelga di immergersi profondamente nell'universo fittizio.
Chiedere a gran voce un selettore di difficoltà non rappresenta in sé e per sé un insulto all'opera di Miyazaki, tesi dalla quale prendiamo le distanze, ma piuttosto una grande svalutazione delle proprie capacità: come dimostrato da LimitlessQuad, tutti hanno le potenzialità per diventare uno shinobi leggendario. Il segreto è non mollare mai e migliorarsi costantemente lungo il sentiero verso la maestria: potrebbe capitare, strada facendo, di scoprire una meravigliosa dimensione artistica celata dietro il velo della difficoltà iniziale, completamente slegata dalla bellezza dei paesaggi e del design, strettamente connessa, invece, alla crescita personale.