La difficoltà nei videogiochi torna a far discutere - editoriale
Il selettore della difficoltà è veramente la soluzione a tutti i problemi?
Non sono passati nemmeno sei mesi dal momento in cui si infiammò la discussione riguardo Sekiro: Shadows Die Twice di From Software, titolo divenuto protagonista di un acceso dibattito internazionale che, ancora una volta, ruotava attorno ad un elemento e uno soltanto: l'impatto della difficoltà nei videogiochi.
Già allora raccogliemmo una serie di testimonianze eccellenti, da quella di Cory Barlog, direttore del nuovo God of War, convinto che la visione autoriale debba sempre avere la precedenza assoluta, fino a quella di JP Kellams, creative director di Bayonetta, deciso nell'affermare che il selettore della difficoltà non faccia male a nessuno.
Allo stesso tempo abbiamo sentito il parere di "LimitlessQuad", giocatore tetraplegico che ha strenuamente difeso l'impostazione dei 'soulslike' di From, lodandone l'accessibilità e parlando in termini più che positivi della curva della difficoltà. Improvvisamente, giusto qualche giorno fa, la madre del fondatore di Vlambeer, Rami Ismail, ha riportato l'incessante dibattito al centro della scena internazionale, quando il figlio ha affermato che è esclusivamente merito delle modalità giudicate "disonorevoli" se la donna ha potuto godere di opere come Dragon Age Inquisition, Assassin's Creed Origins e lo stesso God of War.
Inutile dire che l'uscita di Ismail ha scatenato un'ondata d'indignazione perlopiù ingiustificata: centinaia di 'hardcore gamers', infatti, si sono scagliati contro il giovane sviluppatore in difesa del bastione della difficoltà, dimostrando nuovamente la delicatezza di questa tematica. Una sonora aggressione alla quale l'anziana signora ha scelto di rispondere direttamente, con una frase divenuta ormai cult: "Non capisco... Se posso giocare a questi giochi e questo non ha alcun effetto sulla loro libertà di giocare, qual è il loro problema?".
In realtà, la risposta a questa domanda è piuttosto semplice, e riporta a galla i timori che maturarono attorno all'ultima opera di From Software: il pubblico ha paura che la crescente domanda da parte di giocatori 'inesperti', in tandem con la volontà di raggiungere un'audience che sia la più vasta possibile, finisca per snaturare la visione autoriale degli sviluppatori intaccando, per esempio, quella curva di apprendimento che da sempre costituisce la spina dorsale di opere come Bloodborne o Dark Souls.
E parlando di 'spina dorsale' non intendiamo che la ripidità di quella curva sia un marchio di fabbrica del genere soulslike, bensì che sia proprio la causa alla base del 'contratto' siglato dal team di Myiazaki e milioni di videogiocatori, l'elemento che più di ogni altro riesce a solleticare l'emozione degli appassionati, un perno insostituibile attorno al quale vien poi costruita l'intera esperienza di gioco. Tant'è vero che, se private dell'opera di bilanciamento, anche le componenti esplorativa, narrativa e multigiocatore perderebbero automaticamente la maggior parte del proprio fascino.
A pensarci bene è piuttosto strano che discussioni di questo genere fioriscano spesso attorno ai lavori di From e non intacchino, invece, titoli rispetto ai quali Sekiro non è altro che una passeggiata di salute. Perché nessuno chiede a gran voce una semplificazione nella cornice di progetti come Celeste o Ikaruga? Come mai nessuno sollevò la questione ai tempi di F-Zero GX per Game Cube? E qual è, invece, la ragione del silenzio dietro gli immortali Master Rank temprati introdotti nel recentissimo Monster Hunter World: Iceborne? Nessuno sembra lamentarsi, eppure si tratta di esperienze dure, difficilmente arginabili attraverso un selettore.
La verità è che le produzioni di From Software hanno ormai trasceso da tempo il proprio panorama di riferimento, la minuscola nicchia 'hardcore' individuata con Demon's Souls e poi solleticata dal primo Dark Souls: con il passare del tempo quella piccola platea di "RPGisti" convinti si è trasformata nel grande e curiosissimo pubblico internazionale, una massa distante dalla formula originale ma volenterosa di assaggiare la visione di Miyazaki.
Nessuno, d'altro canto, si sognerebbe mai di chiedere una semplificazione del platforming alla base di Celeste, perché le persone che tuttora sostengono il progetto sanno perfettamente cosa le aspetta dall'altra parte dello schermo, ed è proprio per quelle caratteristiche che hanno scelto di avvicinarsi in primo luogo.
Al di là dei casi limite, sono tonnellate le produzioni ad offrire al giocatore solamente un livello di difficoltà predefinito, studiato a tavolino dagli sviluppatori perché il pubblico possa godere al meglio dell'opera di design. La storia è costellata di titoli semplici da prendere in mano e complicati da padroneggiare, come ad esempio Super Mario 64, opera alla portata dei più piccini eppure estremamente rispettata nel panorama degli speedrunner, o ancora l'intero filone del JRPG, che ha deviato dalla tradizione del bilanciamento introducendo il sistema del farming.
Tendenzialmente è piuttosto difficile trovarsi al cospetto di un prodotto privo di selettore e capace di generare polemiche sulla gestione della difficoltà: fra svariati capitoli di GTA, The Legend of Zelda: Breath of the Wild, Control di Remedy ed il redivivo Monster Hunter World, si tratta di una conversazione che aveva abbandonato i lidi dell'industria da oltre un decennio. E non solo, perché di recente sono emersi molti più casi di titoli attaccati per la troppa semplicità piuttosto che per l'apparente inaccessibilità, come ad esempio Kingdom Hearts III, New Super Mario Bros. 2 o Kirby's Epic Yarn.
Dopo l'abbandono dei sistemi di monetizzazione arcade, è innegabile che la curva della difficoltà sia diventata un espediente fondamentale per aumentare la longevità delle produzioni. Esistono tuttavia opere che crescono inestricabilmente intrecciate con la definizione del proprio livello di sfida, e sarebbe un vero e proprio crimine intaccare la minuziosa procedura di bilanciamento con l'invasività di un selettore: accadrebbe con i lavori di From Software, con Hollow Knight del Team Cherry e con il Cuphead di MDHD, prodotti pressoché perfetti sul piano del balancing.
Allo stesso modo, sono migliaia i videogiochi la cui causa fondamentale esula dal semplice concetto della sfida, o nei quali la difficoltà non è altro che un elemento accessorio. Titoli radicati nella trama, nella regia o nella scenografia, come la saga di Assassin's Creed, quella di Uncharted, il recente God of War o le avventure di Lara Croft, si prestano perfettamente ad una stratificazione dell'impegno necessario per concludere l'avventura, e rappresentano il contesto perfetto per promuovere e testare i sistemi per l'inclusività.
Un'altra questione che tendiamo a non prendere in considerazione, è come il selettore della difficoltà venga effettivamente implementato nei confini della programmazione. Analizzando per esempio The Elder Scrolls V: Skyrim, The Witcher 3: Wild Hunt, i sopracitati Uncharted e God of War o ancora la serie di Halo, è evidente e dichiarato che le impostazioni legate alla difficoltà non siano nient'altro che algoritmi destinati a modificare l'output di danno dei nemici, gli HP pool, le resistenze e altri valori numerici.
Si tratta di un lavoro blando, che raramente riesce a rispondere alle esigenze dei giocatori, realizzando da una parte esperienze 'entry level' eccessivamente semplici, quasi una sorta di completamento automatico, e generando all'estremo opposto un gameplay frustrante, punitivo, utile solamente come 'cancello' a protezione degli obiettivi e dei trofei più ambiti. Il primo caso di uno studio volenteroso di condividere la propria idea del selettore fu quello di Bungie nel contesto di Halo 3, momento in cui la software house ammise e puntualizzò che solamente l'impostazione "Eroica" rappresentava la visione dei creatori.
In questo momento storico, il numero di produzioni che possono essere regolamentate secondo il sistema del selettore è particolarmente elevato ma ciò non significa che sia una soluzione adatta a qualsiasi modello attualmente in circolazione. Allo stesso modo in cui una modalità facile non è applicabile alla scalata progressiva tipica di Tetris, non può funzionare neppure fra i confini di un platform tradizionale come Super Mario Bros. e, dal 2009, è evidente che non sia adatta neppure alla struttura tecnica del neonato genere soulslike.
In un mondo perfetto vivremmo di produzioni "easy to learn, hard to master", una filosofia inconsapevolmente portata avanti da Nintendo per anni, prima di diventare parte integrante del manifesto creativo di Blizzard Entertainment.
Nove volte su dieci, infatti, l'esperienza di gioco riesce a dare il meglio di sé quando il selettore è assente, accontentando una fetta di videogiocatori particolarmente ampia (nella top 15 dei titoli più venduti di sempre, quelli che presentano un selettore sono molto rari) e spingendo milioni di videogiocatori a non dubitare delle proprie capacità.
E chissà che un giorno persino la mamma di Rami Ismail riesca a completare una run su Grand Poo World 2.