La maledizione del day one - editoriale
Da acquirenti ci stiamo lentamente trasformando in beta-tester involontari?
Assassin's Creed: Unity, senza dubbio uno dei titoli più grandi ed importanti di questa stagione natalizia 2014, è finalmente arrivato nei negozi, evidenziando in modo plateale quello che ormai sembra essere uno dei tratti distintivi dell'attuale games industry: l'incapacità sempre più dilagante, quasi patologica, di portare sul mercato, al day one, prodotti completi, funzionali e ben rifiniti.
Al di là delle reazioni della stampa e del pubblico sul gioco in sé, che non sono state propriamente lusinghiere (la versione Xbox One, considerata quella principale, ha attualmente un Metascore di 73 su 100, con un voto degli utenti ampiamente negativo), in Rete circolano infatti un'infinità di immagini e filmati che si concentrano sugli innumerevoli bug che affliggono il gioco, alcuni dei quali molto curiosi o buffi, altri decisamente più insidiosi.
La situazione, nel suo complesso, ha portato addirittura ad un tonfo in borsa per Ubisoft, la quale ha reagito annunciando di essere al lavoro su una prima patch che andrà, teoricamente, a risolvere alcuni dei problemi più molesti riscontrati finora dagli utenti.
(aggiungerei anche la notizia di ieri secondo la quale Ubisoft ha annunciato una non meglio identificata revisione alla politica delle recensioni e il lancio di ulteriori open beta, per far sì che gli utenti l'aiutino a presentare prodotti migliori sul mercato. Un lavoro, questo, che una volta spettava solo al publisher. ndSS)
Unity è soltanto l'ultimo di una lunga lista di videogiochi che, nelle prime fasi della loro commercializzazione, hanno sofferto di problemi di vario genere. Guardando solo alla storia recente, possiamo citare il noto caso di DriveClub, afflitto da gravi instabilità di server, come quelle che hanno funestato anche l'esperienza dell'ultimo SimCity (spingendo addirittura Maxis a rinunciare al DRM e a rilasciare una successiva patch per portare il gioco offline).
Come dimenticare, poi, la vera e propria débâcle di Battlefield 4, afflitto da tanti e tali problemi da aver, secondo le parole dello stesso producer di DICE, "completamente minato la fiducia dei giocatori", danneggiando la reputazione di una delle IP che fino a quel momento sembravano tra le più floride dell'intero panorama videoludico?
Da queste ed altre situazioni, emerge con chiarezza un dettaglio: a fronte di videogiochi sempre più grandi, ambiziosi e complessi, nonché di finestre di release sempre più stringenti e impossibili da mancare (di solito per non perdere l'appuntamento con le festività di fine anno), i publisher hanno preso l'abitudine a rilasciare i loro titoli in uno stato di completamento non ancora ottimale, riservandosi di terminare il lavoro a gioco già sugli scaffali, tramite il discusso strumento delle patch.
Piuttosto che applicare l'arcinota filosofia di Valve "it's done when it's done" (ossia: "il gioco è pronto quando è pronto"), che negli anni ha portato i fan di Gabe Newell e soci ad affrontare attese estenuanti, ma di solito ben compensate dall'uscita di titoli di grandissimo profilo, buona parte degli attuali player dell'industria sembra sposare una visione completamente opposta: il gioco esce quando deve uscire, non importa se il suo stato è ancora incompleto.
Come spiegare, altrimenti, la pratica sempre più diffusa di rilasciare ingombranti "patch del day one"? Come, ad esempio, quella da ben 13 Gigabyte di Dead Rising 3 (ha senso chiamare "patch" un download che pesa quasi quanto l'intero gioco?), oppure quella del recente Wolfenstein (oltre 5 GB), o ancora quella che servì a portare Call of Duty: Ghosts a 1080p su PS4? Per non parlare del mostruoso download obbligatorio di 15 GB che devono sostenere gli acquirenti della Master Chief Collection di Halo (sebbene, in questo caso, lo sviluppatore abbia almeno tentato di fornire delle motivazioni).
Allo stato attuale, in molti casi, acquistare un videogame al day one corrisponde ad aderire, più o meno volontariamente, ad una sorta di "early access" implicito. Paghiamo come finiti prodotti che in realtà non lo sono e attendiamo con fiducia che gli sviluppatori e i publisher completino il lavoro tramite patch postume, delle quali però non possiamo conoscere né la tempistica, né l'efficacia.
Il caso di Skyrim fa scuola: funestato da enormi problemi al suo rilascio (specialmente su PlayStation 3), il gioco fu poi modificato attraverso un lento e costante lavoro di aggiornamento, che però ad ogni singola patch corresse alcuni bug e ne introdusse al tempo stesso di nuovi (come quello, esilarante, dei draghi che volavano all'indietro, introdotto con la patch 1.2).
Accetteremmo una situazione simile nell'ambito di altri media? Sceglieremmo di comprare all'uscita (o, magari, "pre-ordinare") un film che ci prometta di "introdurre effetti speciali migliori" soltanto in un secondo tempo? O magari un libro digitale per il quale l'editore annuncia di voler rifinire il lavoro di editing in una fase successiva, rimuovendo ripetizioni e refusi?
Chiaramente, un software non è un libro o un film: in prodotti così grandi e complessi come un videogame moderno (o qualsiasi altro programma di una certa entità), i bug esistono, sono sempre esistiti ed esisteranno sempre. Ma questa non è una buona scusa per far sì che la presenza diffusa di glitch molesti, l'incompletezza o in generale la scarsa rifinitura dei titoli, da eccezione, diventino una regola da far trangugiare al mercato con puntuale frequenza.
La migliore arma di difesa contro questa tendenza dilagante? Controllare l'impulso dell'acquisto al day one (e, ancor di più, l'infausta abitudine del pre-order) e, in presenza di titoli palesemente disseminati di problemi al lancio, attendere almeno che vengano diffuse le prime patch dalla comprovata efficacia. Il giorno in cui i publisher osserveranno un tracollo nelle vendite al day one dei titoli incompleti o meno rifiniti, sarà il giorno in cui questo insidioso fenomeno comincerà a vedere un'inversione di tendenza.