La metamorfosi di Blizzard Entertainment - editoriale
Dai prestiti della nonna fino al tetto del mondo. Ma a che prezzo?
Chiunque abbia vissuto una storia d'amore con Blizzard Entertainment non può far altro che considerare Mike Morhaime alla stregua di un padre. Ogni volta che un grande capolavoro si affacciava per la prima volta di fronte alla folla della BlizzCon, Mike Morhaime faceva la sua comparsa in stile Babbo Natale. Ogni volta che la casa di Irvine annunciava un nuovo gioco, magari uno distante dallo stile classico come ad esempio Overwatch, Mike Morhaime era lì per rassicurare i fan.
Oggi, sulla poltrona che era di Mike, siede J. Allen Brack. Ma l'ex patron non si è allontanato per godersi la meritata pensione, anzi. Ha fondato una nuova compagnia che si chiama DreamHaven, e lo ha fatto rilasciando una dichiarazione che profuma d'accusa: "Vogliamo creare un rifugio per gli sviluppatori che cercano un ambiente develoment friendly, che dia importanza al prodotto e all'esperienza dei giocatori piuttosto che alla pressione finanziaria sul breve termine".
Ora, sappiamo tutti che Activision-Blizzard finisce costantemente al centro del mirino dei suoi fan. Spesso si dice che la società di Robert Kotick abbia rovinato la casa di Irvine, che l'unico parere che conta è ormai quello degli investitori, che una volta persa l'indipendenza il reparto creativo ha conosciuto un crollo. Ma la verità, come scopriremo presto, è che Blizzard rappresenta una dimensione molto diversa dalla Magliana di Romanzo Criminale: ha sempre voluto un padrone.
Immaginate cosa doveva essere la Silicon Valley all'inizio degli anni '90. L'intera Bay Area della California portava sulle spalle ormai un trentennio di storie fatte di semiconduttori, hardware e progetti militari. Chiunque uscisse con un dottorato dalle università tecnologiche più prestigiose del paese, sognava di mettersi al servizio dei colossi emergenti o, ancora meglio, di fondare la propria compagnia per afferrare una fetta della torta.
È il 1990 quando tre giovani di belle speranze escono dalla Los Angeles University con una laurea in una mano, una valigia piena di sogni nell'altra, diecimila dollari ciascuno sul conto bancario e tantissima voglia di produrre videogiochi. A dire il vero Mike Morhaime quei soldi non li ha nemmeno, ed è sua nonna a prestarglieli per consentirgli di entrare in società con gli amici Allen Adham e Frank Pearce.
Per farsi un'idea del caos che regna negli Stati Uniti dell'epoca, è più che sufficiente riassumere i primi anni di vita della compagnia. Silicon & Synapse nasce nel 1991 ma dopo soli tre anni è costretta a cambiare nome. Come mai? Beh, oltre ad essere l'era della rivoluzione tecnologica, è anche quella dell'esplosione della chirurgia estetica. E stando alla ricostruzione di Adham, capitava spesso che imprese esterne pensassero a Silicon & Synapse come a una casa produttrice di protesi mammarie.
I più esperti tra voi sapranno già che la compagnia cambierà nome in Chaos Studios attorno al 1994. Anche questa denominazione, tuttavia, sarà destinata a durare pochissimo: la Chaos Technologies della Florida esigerà dai ragazzi centomila dollari per sanare la violazione del copyright. Ovviamente Mike, Allen e Frank non hanno alcuna intenzione di pagare una somma simile, pertanto si siedono a un tavolino e decidono che la compagnia, da quel giorno, avrebbe dovuto chiamarsi Ogre Studios. Ma la parola Ogre, letteralmente "orco", non piace per niente alla Davidson & Associates.
Ma che diavolo è la Davidson & Associates? Qui ci ricolleghiamo a quanto detto in apertura, ovvero che Blizzard ha sempre voluto un padrone. Dopo i primi floridi tre anni trascorsi realizzando porting di titoli affermati, lo studio con sede a Irvine è infatti già stato acquisito dalla Davidson per oltre sei milioni di dollari. E dato che di beghe giuridiche sanno poco e nulla, e soprattutto non vogliono averci niente a che fare, i tre ragazzi inviano ai legali della proprietà una lunga lista di nomi che gli piacerebbe utilizzare, chiedendogli di individuarne uno che non desti problemi di sorta. Quel nome, alla fine, sarebbe stato Blizzard Entertainment.
Arrivata a questo punto, l'evoluzione della piccola casa produttrice di videogiochi imbocca due strade separate. Dal punto di vista finanziario la società non è più un'entità indipendente, bensì un bene di cui disporre, ora nelle mani della Davidson & Associates, ma domani chissà. Dal punto di vista creativo, invece, è giunto il momento di costruire le impalcature di quelle produzioni che costituiscono la stessa ragion d'essere della compagnia.
Anche se la storia embrionale di Blizzard è fatta di titoli come The Lord of the Rings Vol. 1, Battle Chess o The Lost Vikings, i tre ragazzi al timone si sono messi in affari con un'idea molto chiara in testa: pubblicare il loro videogioco originale, un RTS dalle tinte fantasy intitolato Warcraft: Orcs & Humans. L'universo di Warcraft è a tutti gli effetti il motivo per cui esiste Blizzard, e fa sorridere che ancora oggi costituisca una delle più grandi motrici finanziarie ed economiche della casa.
Piccola curiosità: i vertici di Blizzard, ovviamente, non possono assolutamente immaginare il successo di Warcraft. Quando Sam Didier propone il nome ormai divenuto parte della leggenda, i creativi pensano Warcraft come una serie capace di abbracciare la tematica della guerra a tutto tondo, senza vincoli di genere, al punto da immaginare un Warcraft: Vietnam ambientato nel mondo reale e in epoca moderna.
Questo per dire che la Blizzard dell'epoca operava come una vera e propria Casa delle Idee (non ce ne voglia Marvel per l'appropriazione indebita del soprannome), volenterosa di sperimentare in diverse direzioni, dallo sci-fi al fantasy, prendendosi tutto il tempo necessario e prestando pochissima attenzione al mutevole mercato che sta virando dalle formule tradizionali.
Qualche volta però accade una piccola magia: il percorso artistico di autori storicamente disinteressati e naif si intreccia perfettamente con le esigenze dell'industria di riferimento. È successo a Neffa con la musica italiana, a Massimo Bottura con la cucina, ed è successo anche alla società di Mike Morhaime nel corso dei 15 anni che hanno portato fino al lancio di World of Warcraft.
La galassia di Starcraft, i panorami di Azeroth, l'estrema oscurità di Diablo, insomma, tutta la ricerca creativa della compagnia, si è mossa su binari completamente differenti da quelli che guidavano l'evoluzione dell'industria. Servivano tempi di sviluppo biblici per immettere sul mercato prodotti che rispettassero le altissime aspettative dei creatori, ancor prima di quelle dei consumatori. Prodotti che poi, solo incidentalmente, si rivelavano tanto strepitosi successi commerciali quanto opere rivoluzionarie.
Ma com'era possibile che un piccolissimo nucleo creativo riuscisse a sostenere economicamente un simile impegno? La risposta risiede nel dietro le quinte. Mentre Chris Metzen disegnava bozzetti di Sarah Kerrigan e Arthas Menethil, Blizzard passava di mano in mano a una velocità folle, e nessuno dei vertici prestava attenzione a ciò che accadeva nei corridoi degli studi. La compagnia era praticamente un'oasi felice in cui si coltivava l'ingegno in mezzo al caos societario che avvolgeva il segmento corporativo, e la dirigenza si limitava a raccogliere parte dei frutti.
Nel 1996 la Davidson, e quindi anche Blizzard, viene acquistata in una maxi operazione della CUC International, un'agenzia di servizi digitali. Non passa neanche un anno che la CUC International si fonde con la HFS Corporation, un'enorme immobiliare, per dare vita a una nuova società quotata chiamata Cendant. Nei mesi successivi si scopre che la CUC porta sulle spalle un immenso curriculum di frodi fiscali e finanziarie, quanto basta per far crollare il valore delle azioni di oltre l'80%.
Cendant è costretta a cedere il segmento software, che include anche Blizzard nel pacchetto di Sierra On-Line, e nel 1998 trova un acquirente nel publisher francese Havas. Ma anche qui le cose durano pochissimo: mesi più tardi, infatti, l'intero portfolio di Havas entra a far parte dell'enorme famiglia di Vivendi, il gigantesco conglomerato media con sede a Parigi. E durante tutto questo tempo Blizzard continua a infornare capolavori incurante di chi ci sia al timone.
Poi, negli anni a venire, si verificano due eventi destinati a cambiare per sempre non solo la storia della società di Irvine, ma l'intera industria dei videogiochi. Il primo accade nel 2013, quando Valve trasforma quella che era una semplice mod di Warcraft 3 risalente a un decennio prima, nientemeno che la mappa Defense of the Ancients, in un titolo a sé stante, ovvero DotA 2. Ovviamente, la contesa finisce in tribunale.
Quella che segue è una delle cause legali più assurde e insensate nella storia del business tecnologico, per certi versi paragonabile alla famosissima vertenza che ha coinvolto Xerox agli albori dei personal computer. Forse per la scarsa competenza dei legali, forse per il disinteresse della compagnia madre, forse per un semplice errore di valutazione, DotA diventa un marchio di proprietà di Valve. Si firma una transazione, e tutti sono contenti. Quello che Blizzard non sa, è che gli è stato appena sfilato da sotto il sedere il trono dei MOBA, il genere che diverrà il più diffuso e redditizio di tutti i tempi.
Negli anni questa sconfitta si trasformerà in una cicatrice insanabile per la compagnia, e non solo perché una Blizzard con DotA sarebbe diventata senza mezze misure la software-house più potente del pianeta, ma soprattutto perché cancellerà dai libri di storia la sua politica aperta e fortemente libertaria. Il secondo avvenimento risale invece al 2005, quando Blizzard tira fuori il proverbiale coniglio dal cilindro pubblicando World of Warcraft, trasformandosi di punto in bianco nella società leader indiscussa del mercato MMO.
È giunto il momento di introdurre il personaggio più importante di tutta questa storia, un individuo che non ha nulla a che vedere con Irvine, con Vivendi, né tanto meno con Valve. Un uomo che nel 1990 aveva acquisito una minuscola casa di sviluppo di Atari finita in bancarotta, e che stava cercando di barcamenarsi nel mercato in fermento insieme a una piccola armata di studi proprietari. Quella compagnia si chiamava Activision, e quell'uomo era Bobby Kotick.
Di Robert Kotick se ne dicono quotidianamente di tutti i colori: che è solo interessato al business, che ha distrutto Blizzard, addirittura che è la causa di gran parte dei mali dell'industria. In realtà Bobby ha due enormi punti di forza: anche se molti faticano a crederci è un grandissimo appassionato di videogiochi, al limite del viscerale, inoltre ha un fiuto incredibile per gli affari. E manco a dirlo, Bobby ha fiutato Blizzard.
Il successo planetario di World of Warcraft e l'incalcolabile somma portata nelle casse di Vivendi convincono Kotick ad avviare una difficile trattativa per fondere la sua Activision con Vivendi Games, quel gomitolo di publisher di cui Blizzard rappresenta la punta di diamante. Jean Bernard-Levy, CEO di Vivendi, sarebbe anche disposto ad accettare ma vuole che la società madre mantenga una quota di controllo sulla nuova compagnia, di conseguenza Bobby non sa più che pesci pigliare.
Si rivolge così al caro vecchio Mike Morhaime e questi gli rivela un dettaglio capace di fargli luccicare gli occhi dalla gioia. La casa di Irvine sta infatti perfezionando un accordo con il distributore orientale NetEase per raggiungere l'impenetrabile mercato cinese, una gallina dalle uova d'oro che Kotick aveva già adocchiato in tempi non sospetti. Non ci sono più dubbi, la fusione si farà: Vivendi Games e Activision scompariranno per dar vita ad Activision-Blizzard.
Ora potremmo raccontare di come Vivendi Games fu smembrata nel giro di pochi mesi, fra decine di singoli studi e IP cedute praticamente all'asta al miglior offerente, ma questa è un'altra storia. Quella che ci interessa oggi è una storia ciclica che ha come protagonisti Blizzard, Bobby Kotick, la Cina, gli investitori, il pubblico della prima ora e soprattutto il mercato dei videogiochi.
Perché anche se nel 2010 sono ormai passati vent'anni, c'è sempre di mezzo la casa di Irvine, che vuole prendersi il tempo giusto e percorrere una strada personale, una multinazionale che paga gli stipendi ai creativi e i dividendi agli azionisti, un'utenza appassionata da anni e un mercato che si sta evolvendo più rapidamente che mai. Ed è una storia in cui non ci sono vittime.
Quella Blizzard che, ricordiamolo, ha rinunciato alla sua indipendenza a soli tre anni dal momento della fondazione, per la prima volta inizia a inanellare una pesantissima serie negativa. C'è World of Warcraft che tocca i minimi storici con l'espansione Warlords of Draenor, c'è il costosissimo Project Titan che sembra non portare da nessuna parte, per finire c'è Heroes of the Storm, l'ultima cicatrice della violenta scottatura ricevuta da Valve, un tentativo disperato di rientrare nel mondo dei MOBA.
Nella prima metà degli anni '10 Blizzard è la solita Blizzard di sempre: opera al limite del fondo perduto, non si fa problemi a diluire i tempi di sviluppo e gestisce le IP in totale autonomia. La grande differenza rispetto al passato è che stavolta tutti i progetti sembrano destinati ad andare malissimo. L'amara verità è che nessun dirigente mette becco nelle dinamiche di una controllata finché le cose vanno meglio del previsto (Vivendi non era certo una società filantropica) ma la musica cambia quando i risultati tardano ad arrivare o non arrivano affatto.
Inizia allora un necessario lavoro di ristrutturazione. Tutti gli sforzi vengono dirottati verso Overwatch, l'esordio nel mondo FPS nato dalle ceneri di Titan, e Hearthstone, un particolare gioco di carte fiorito attorno all'universo di Warcraft. Bisogna penetrare il nuovo mercato mobile, adeguare le tempistiche di sviluppo ai dettami dell'industria, potenziare i sistemi di monetizzazione interni alle produzioni, e soprattutto bisogna realizzare tutto questo senza perdere il tocco dell'artista.
Per fortuna o per sfortuna, la "cura" funziona a meraviglia. I giochi della casa tornano a vendere decine di milioni di copie, gli abbonamenti crescono a dismisura, orde di nuovi fan si precipitano alla BlizzCon, e come se non bastasse Kotick ha centrato in pieno il suo obiettivo, imponendosi come un colosso al centro del mercato cinese. E gli investitori, come da tradizione, vogliono di più e sono disposti a staccare assegni d'oro per chiunque porti soldi in cassa.
Questa operazione monumentale, ovviamente, richiede un costo elevato ma si tratta di un costo umano piuttosto che economico. Lo stesso costo che tutte le software house che operano nel mercato contemporaneo si trovano a dover pagare una volta riempite le tasche degli azionisti. Non è un caso se dopo Skyrim abbiamo assistito ad un calo qualitativo sulle sponde di Bethesda Game Studios, se Electronic Arts ha mutilato lo sviluppo di Anthem, se Dan Houser è stato allontanato da Rockstar Games dopo Red Dead Redemption 2.
Negli anni 2010 cresce l'importanza del marketing e crolla quella dei creativi. Rob Pardo, il padre di Warcraft e Starcraft, si allontana nel 2014, e Nick Carpenter, direttore delle favolose cinematiche, lo segue due anni più tardi. Nel 2016 se ne va anche Chris Metzen, forse la perdita più importante, praticamente la mano nascosta dietro tutti i personaggi e le storie più iconiche della casa. Poi è la volta dei fondatori, con Mike Morhaime e Frank Pearce che lasciano a un anno di distanza l'uno dall'altro, seguiti a ruota da Chris Sigaty, il produttore di tutti gli RTS. Chiudono la fila Michael Chu, il miglior designer della casa nonché il creatore degli eroi di Overwatch, e Ben Brode, il patron di Hearthstone.
Bisogna leggere le parole di Mike Morhaime riguardo DreamHaven sotto una luce diversa. "Vogliamo creare un rifugio per gli sviluppatori". Un rifugio perché la normalità, là fuori, è un sistema dal quale nessuno può sfuggire, fatto di operazioni finanziarie a breve termine e scadenze sempre più difficili da rispettare. Un mondo in cui la libertà creativa è una rara conquista figlia del mecenatismo, ma anche in questo caso bisogna piegarsi a dinamiche discutibili come il crunch. È veramente impossibile conciliare l'universo finanziario con quello artistico?
La Blizzard di oggi è una società ancora piena zeppa di sognatori, trainata dai numerosi veterani rimasti e ricca di giovani che sono cresciuti insieme alle leggendarie saghe di Chris Metzen. C'è un amore per la qualità e l'eredità della casa che continua a trasparire, nonostante la rivoluzione, da qualsiasi progetto che passi per le mani di personaggi del calibro di Jeff Kaplan o Ion Hazzikostas. A differenza del passato, però, c'è anche un esercito di investitori ormai abituati ad aspettarsi con una certa frequenza grosse fette di una torta cresciuta a dismisura, broker più che mai volenterosi di premiare l'operato dei dirigenti.
Sarà solo in seguito a questo turbolento 2020 che scopriremo cosa verrà fuori dal bozzolo una volta compiuta la metamorfosi. La stessa Blizzard di sempre? Forse un'entità ormai irriconoscibile? Forse una creatura migliore, volenterosa di ricucire lo strappo con la community? La risposta si cela nei meandri di Overwatch 2, Diablo 4, World of Warcraft: Shadowlands, e magari anche nello spazio di un nuovo capitolo di Starcraft.
Ci sarebbe piaciuto concludere questa analisi affermando che stava iniziando a intravedersi una luce in fondo al tunnel, fra tempistiche dilatate e un dialogo riaperto, ma una notizia dell'ultima ora ha spento tutto il nostro entusiasmo.
Blizzard Versailles, storica sede europea, chiuderà presto i battenti, lasciando senza lavoro 400 impiegati a un solo anno di distanza dagli 800 licenziati nel 2019. E tutto questo, ovviamente, accadrà ancora una volta all'ombra dei premi milionari che continuano ad essere erogati in favore dei vertici.
È questo il prezzo del "successo"?