La ragazza di Stillwater - recensione
Un grande interprete per una storia sorprendente.
Cosa ci fa a Marsiglia un americano dell'Oklahoma, un tizio tutto d'un pezzo, dall'aspetto stolido, incorporato con il suo berretto, casetta in periferia, lavoro da bassa manovalanza, e nel tempo libero fast food e predicatori televisivi?
Va a trovare la propria figlia ventenne, studentessa in cerca di nuovi orizzonti, in carcere da cinque anni per avere ammazzato una ragazza di origine araba, con cui aveva una relazione. E altrettanti da scontare. Lui, Bill, la sta andando a trovare da anni, disciplinatamente, rispettosamente.
Ma la ragazza continua a proclamare la sua innocenza e afferma di avere trovato qualche nuovo indizio che potrebbe aiutarla a interrompere la pena. Bill l'ha molto delusa nella sua vita, anche la madre non ha fatto di meglio. Come ignorare la sua disperazione, come sottrarsi anche se tardivamente ai suoi doveri di padre?
Sono indubbie le assonanze con il caso Amanda Kox/ Meredith Kercher ma non è questo che interessa al regista, che è Tom McCarthy, che abbiamo imparato ad apprezzare per film come The Station Agent, L'ospite inatteso, e Il caso Spotlight. Perché da un fatto di cronaca nera può avere origine tutta un'altra storia, che mira a ben altro, a ben più che un'attribuzione di colpa, alla normale soluzione di un caso giudiziario.
Per Bill l'ambiente è ostile, lui non parla o capisce una parola di francese, non sa come muoversi, ha pochi soldi. Incontra per caso una donna gentile, un'attrice di teatro off, mamma single di un'adorabile bambina, entrambe gli si affezionano, per ragioni diverse.
Del resto, l'uomo se lo merita, perché dalla sua discrezione rispettosa, dalla sua incapacità di comunicare traspare un animo buono, nonostante le ombre del passato. Basterà tutto questo a risolvere il caso e venire nominato papà dell'anno? Fosse un film con Liam Neeson, forse. Ma qui siamo da tutt'altra parte e la conclusione non sarà per niente scontata o consolatoria.
Nel ruolo del protagonista troviamo un "eroe" come Matt Damon, che però di parti da uomo comune ne ha fatte parecchie, anche comiche o grottesche, e qui trova uno di quei ruoli che spesso gli attori cercano, per dimostrare cosa siano capaci da fare. E Damon lo dimostra, con un'interpretazione minimale e assai toccante.
Il suo cambiamento, immerso nella realtà di un paese prima sconosciuto, vissuto solo come luogo di passaggio, modificherà il suo rapporto con la figlia e il suo modo di guardare il mondo. Bill è un americano medio, che si ritrova in una società multirazziale non necessariamente più risolta, migliore della sua, ma semplicemente diversa, in un ambiente dove ugualmente la vita non fa sconti a nessuno, ma dove sembra trasparire una flessibilità maggiore, una possibilità di vita differente, come si aprisse uno spiraglio verso qualcosa che lui mai aveva potuto vedere prima. E come farà il suo sguardo a posarsi su ciò che era prima?
Assai ben scritti anche i personaggi collaterali. La donna che lo accoglie è Camille Cottin, ottima attrice francese, non-diva per eccellenza, ben nota per la spiritosa serie tv Chiami il mio agente e apprezzata anche in Il mistero Henri Pick. Abigail Breslin, cresciuta dai tempi dell'ormai lontano Little Miss Sunshine, è la figlia. Deliziosa e bravissima la piccola Lilou Siauvaud.
Stillwater (questo è semplicemente il titolo originale) si chiude con un'amarezza che non ci si aspetta in un film come questo. Che non è mai solo thriller, anche se un delitto è stato commesso e si deve capire chi è il colpevole, che è storia di formazione e di crescita, mentre si è costretti a un'esperienza di vita imprevista.
E la svolta finale inattesa non produce risultati deflagranti, ci fa solo capire quello che un padre può fare per una figlia, come si possa avere un lieto fine che però non è affatto lieto. Qualche volta tocca accontentarsi di una vittoria anche se sa tanto di sconfitta. E il prezzo lo si paga aggrappandosi a Gesù oppure al Maktub islamico ("è scritto"), come impara la figlia in carcere.
Che vuol dire l'accettazione del proprio destino, del carico dell'ennesimo fardello che da quel momento in poi farà parte di noi, mentre procediamo lungo quel tortuoso percorso che è la vita.
Sui sui titoli di coda la musica di Mychael Danna, con quella nota dissonante che si insinua nella sua malinconica bellezza, si fa metafora subliminale di uno di quei film che più ci si pensa, più piace.