La redenzione nascosta dietro Red Dead Redemption 2 - editoriale
Non solo Arthur Morgan.
La dissacrante desensibilizzazione della violenza portata avanti da Rockstar Games è diventata quasi un manifesto della filosofia della software house, una fucina di artisti che è da sempre determinata a non chiudere un occhio di fronte alle ingiustizie, alle difficili tematiche politiche e alle grandi discussioni sociali. Un focus, questo, che è possibile ritrovare all'interno di qualsiasi istanza di Grand Theft Auto, serie oltremodo attuale e profetica che, tuttavia, si permette di avvicinare determinati argomenti perché tradizionalmente protetta dal potentissimo "scudo" dell'ironia.
Già, perché quando si toccano tematiche complesse sfruttando lo humor, per quanto possa essere 'nero', la discussione assume una tonalità diversa, a tratti giocosa, come egregiamente insegnato dal fortunato esempio dei Simpsons. Ciononostante, ad una delle IP più condannate del medium va riconosciuto il merito di aver rotto senza alcun timore tantissimi tabù, dal razzismo, passando per la sfera sessuale per arrivare infine alla politica della corruzione, al degrado post-capitalista e all'annientamento dell'individualità.
In un certo senso si potrebbe affermare che i veri protagonisti di GTA siano gli usi e i costumi della società moderna; se questo è vero per le scorribande criminali che infiammano le città di Los Santos, Liberty City e Vice City, lo stesso non si può dire di Red Dead, una serie che prende le distanze dall'epoca contemporanea, rifuggendo l'era dei mass media per puntare la lente d'ingrandimento su storie ed emozioni decisamente più intime.
Red Dead Redemption 2, al contrario delle apparenze, è stato un titolo piuttosto discusso. In molti si sono lamentati delle valutazioni della critica perché eccessivamente entusiaste, incapaci di disaminare il tessuto tecnico e troppo morbide nel passare sopra ai nodi del gameplay. Eppure, se dovessimo recensire altre cento volte l'epopea di Arthur Morgan, probabilmente le assegneremmo altre cento volte un 10, quel voto che ha fatto sobbalzare decine di elitisti sulla sedia, un numero che secondo alcuni non andrebbe neppure lontanamente sfiorato, pena la mancanza di rispetto verso le opere dei nostri avi.
Ma la verità è che, in pieno stile Rockstar Studios, anche "uccidere gli dèi" fa parte dei doveri della critica. Il fatto che Red Dead Redemption 2 sia una produzione corposa ed elaborata come una pregiata bottiglia di vino da sorseggiare un calice per volta, non prima di averla fatta decantare, difficilmente vi parrà un'eresia. Ma per analizzare lo straordinario 'reverse engineering' che gli sviluppatori hanno compiuto sul proprio operato, saremo costretti a chiamare in causa determinati dettagli della trama, pertanto invitiamo chiunque non abbia completato l'avventura ad interrompere la lettura dell'articolo.
Iniziamo con delle constatazioni: Arthur Morgan si è guadagnato un posto di diritto fra i primi gradini di un'ipotetica classifica dei personaggi meglio scritti nella storia del medium; il prodotto, nel suo insieme, è uno fra i migliori (se non il miglior) prequel nella storia dell'intrattenimento, non solo nel panorama dei videogame; il mondo creato da Rockstar Studios, poi, trova la sua anima artistica nelle componenti non scontate, nelle sorprese e nelle unicità, nelle istantanee registiche quanto nelle vibrazioni musicali, in un vortice di tecniche studiate per punzecchiare la sfera emotiva.
Queste pennellate disegnano una perfetta scenografia per la vicenda, o meglio, per le vicende, dal momento che oltre alla parabola di Arthur c'è spazio per l'importantissimo segmento dedicato a John Marston. Prendendo le distanze dall'eredità creativa della casa, gli artisti degli Studios hanno confezionato un viaggio decisamente più intimo, non più un espediente per mettere a nudo i meccanismi sociali, ma un classico romanzo ricamato attorno al tema della redenzione.
E, giocando con la ritmica, sono riusciti ad esplorare il lento risveglio morale dei protagonisti con una cura ed una coerenza senza precedenti, ponendo un sonoro accento su ciascuna epifania esperita da quelli che, inizialmente, apparivano come semplici killer a sangue freddo. Le morti ingiuste, gli atti più discutibili e la perdita degli affetti acquisiscono un valore del tutto inedito alla luce dell'implementazione del "tempo" fra i pixel dell'opera videoludica, uno tra gli elementi più difficili da integrare nei prodotti del medium.
Le sregolatezze cedono lentamente il passo alle più intime riflessioni etiche finché, dopo la sezione ambientata sull'isola di Guarma, la sceneggiatura fa una capriola inaspettata: la malattia di Arthur diventa uno splendido espediente per modificare sostanzialmente la luce che illumina tanto l'architettura ludica quanto le voci dei comprimari.
Spietati fuorilegge vengono sostituiti da uomini di chiesa, i racconti delle scorribande cedono il passo a spaccati di vita genitoriale, l'amore si ritaglia uno spazio importante fra i boschi ricolmi di banditi ed i sogni di gloria iniziano a spegnersi, mentre si osserva il tramonto sul bordo di un lago attingendo dall'infinita esperienza di un vecchio.
Niente di nuovo fra le valli monumentali: potrebbe sembrare la classica storia del criminale redento. E invece no, perché il capolavoro di Rockstar non risiede nell'aver plasmato un protagonista dinamico, realistico e fuori dal tempo, e non sta neppure nella morale dell'ostrica alla base della vita di John Marston. La vera maestria si nasconde dietro la rottura della quarta parete, perché arriva un momento in cui il suddetto tema della redenzione trascende il limite dello schermo e finisce per toccare il libero arbitrio del giocatore.
Come accennato in apertura, le opere di Rockstar sono intrinsecamente desensibilizzanti, e sono divenute celebri nella cornice del mercato di massa per aver messo in scena milioni di massacri creativi, morti insensate e stupidi quanto divertenti sfoggi di violenza. Caspita, siamo stati Carl Johnson quando bastava uno sguardo storto per finire al creatore, e ironicamente siamo diventati Arthur Morgan, forse l'uomo che ha spezzato più vite nell'intera eredità dello studio.
Eppure, con un colpo da maestro, il team di Dan Houser è riuscito a farci esitare a premere il grilletto e a farci tener conto della scelta morale di un personaggio intenzionato a smettere di uccidere, fino a portarci a mettere in discussione quell'assurda spirale di violenza. Le linee redentive di Morgan, del giovane Marston e dello stesso Dutch Van der Linde sono nulla se confrontate con la redenzione della persona che impugna il gamepad, un giocatore prima plasmato, poi distrutto ed infine ricostruito secondo la volontà di Rockstar.