Skip to main content

Le Iene parlano di videogiochi, smartphone e dipendenza tra i più giovani: cronaca di un disastro annunciato?

Un disastro pieno di luoghi comuni o qualcosa di più?

"Videogiochi, smartphone e tablet: fanno davvero male ai bambini? Molti provano diffidenza nel vedere un bambino con in mano i videogiochi, smartphone o tablet. Ma è davvero pericoloso per i più piccoli? Matteo Viviani prova a fare ordine tra dipendenza, iper connessione e genitori che dovrebbero giocare con i loro figli anche ai videogame".

Con questa descrizione durante la puntata di Le Iene di ieri sera è andato in onda un servizio di Matteo Viviani che, come spesso accade, fa suonare alcuni campanelli d'allarme sia tra gli addetti ai lavori che tra gli appassionati. Il rischio di luoghi comuni, cacce alle streghe e strafalcioni d'altronde è dietro l'angolo ma il servizio in questione è tutto da buttare o può in larga parte dire qualcosa di importante a chi conosce poco i videogiochi? È la classica demonizzazione del medium o è qualcosa di più?

Il servizio si apre con una riflessione che parte dai comportamenti di una bambina di un anno, molto più a suo agio con un tablet piuttosto che con una rivista cartacea. Un ragionamento sulla natività digitale e su come i più giovani si trovino decisamente più a proprio agio con uno schermo digitale piuttosto che con oggetti diversi. Il tutto accompagnato dalle parole di Viviani che dichiara: "abbiamo deciso di dare un'occhiata a questo mondo un po' più da vicino e quello che abbiamo capito, onestamente, ci ha sorpreso".

La Iena ha parlato tra gli altri anche con Jordan Shapiro, presentato come uno dei maggiori esperti in competenze digitali nell'infanzia. Shapiro comprensibilmente dichiara: "I genitori devono smettere di vedere i videogiochi e gli smartphone come qualcosa di pericoloso. Forse in futuro giocheremo ai videogiochi con i figli prima di andare a letto. I videogiochi sono assolutamente retorici, sono persuasivi, provocano emozioni, ci danno delle informazioni.

"Penso che dobbiamo riconoscere che i videogiochi potrebbero diventare, se non lo sono già, le nuove favole della buonanotte, la nuova mitologia".

Shapiro non si preoccupa dei videogiochi e non si preoccupa dei social. I suoi figli giocano dall'età di circa 4 anni con 1 o 2 ore di gioco al giorno durante la settimana e punte di 7 ore durante i weekend. Anche sui social la sottolineatura è chiara: non si deve comunque parlare di libertà assoluta ma non c'è nulla di pericoloso in sé e per sé.

"Quando portiamo un bambino al parcogiochi se colpisce un altro bambino gli diciamo di non farlo. A volte ci vogliono anni per insegnare il comportamento giusto e per qualche ragione si pensa che nel mondo digitale sia diverso ma è la stessa cosa. Non bisogna considerarlo una droga, non è tossico!"

Viviani allora tira in ballo un classico: "molti studi" metterebbero in relazione un uso smodato di videogiochi e internet con ansia, depressione e l'essere sovrappeso.

La risposta di Shapiro è molto semplice: "Ci sono anche studi che dimostrano che ragazzini depressi si uniscono in community online e questo può essere un grande beneficio. Ci sono studi in entrambe le direzioni".

A questo punto cambia l'interlocutore del servizio con le dichiarazioni della psicologa G. Guadagnini. La dottoressa sottolinea come i videogiochi possano essere una sorta di mezzo per fuggire da problemi come la scuola, i genitori e in generale per isolarsi dalla realtà. Ci sarebbe quindi il rischio che i videogiochi allontanino i più giovani dal mondo reale attraverso la creazione di ambienti mentali completamente virtuali. Queste dichiarazioni sono l'occasione perfetta per introdurre le linee guida dettate dall'American Academy of Pediatrics. Si parla di nessun gioco virtuale o "schermo" per i bambini che hanno meno di 1 anno e mezzo, per poi passare a un'ora al giorno per i bambini tra i 2 e i 5 anni. Com'è facilmente intuibile questi sono limiti che quasi mai vengono rispettati.

Jordan Shapiro.

Continuando il suo intervento la dottoressa Guadagnini fa un collegamento che francamente ci piacerebbe non vedere più, soprattutto se fatto con tale leggerezza da una studiosa: questa immersione totale rischierebbe di portare a comportamenti violenti perché i giochi che vanno per la maggiore sarebbero per l'appunto quelli violenti. Gli studi che sottolineano come questa correlazione a conti fatti non esista sono una marea ma a quanto pare non bastano.

In questo passaggio non poteva mancare Fortnite, "un gioco in cui la morte dell'avversario va festeggiata ballando la Floss Dance". Beh sì, le emote ci sono e sì, si eliminano effettivamente i personaggi controllati da altri giocatori ma davvero si può parlare di Fortnite come di un gioco violento? Insomma. Fortnite viene definito come un videogioco controverso perché considerato violento e perché in grado di creare una forte indipendenza. Si cita in questo senso la class action intentata contro Epic Games da uno studio legale canadese circa un mese fa. Epic secondo la causa sarebbe colpevole di aver a tutti gli effetti distrutto giovani vite.

Ovviamente non possono poi mancare le testimonianze anonime. Si parte con una madre di un bambino di 8 anni che accusa Fortnite di aver cambiato il figlio rendendolo a tutti gli effetti dipendente dal gioco stesso. La preoccupazione era che il figlio potesse diventare una sorta di "tossico del gioco". Viviani sottolinea come i fenomeni di dipendenza esistano citando anche la decisione da parte dell'Oms di inserire il Gaming Disorder tra le malattie ufficiali. Poi la seconda testimonianza anonima, questa volta di un ragazzo definito dipendente dai videogiochi, in questo caso soprattutto Call of Duty.

I dettagli personali sulla vita e i problemi del ragazzo non mancano e non ci vuole molto per capire come il videogioco non fosse il problema in sé ma "solo" la soluzione a situazioni complicate decisamente più profonde. Fatto sta che dai 13 ai 16 anni questo ragazzo era arrivato a passare anche 14 ore sui videogiochi con picchi di 24 ore. Questo "ex tossico di videogiochi" si è poi innamorato e ha finito per farsi convincere a farsi visitare da uno psichiatra, il dottor F. Tonioni, che si occupa di dipendenze patologiche e di adolescenti.

Tonioni spiega come lui stesso non parli mai di videogiochi in sé e per sé o di eliminarli dalla vita dei pazienti. "Si parla di emozioni, di capacità di innamorarsi, di paura di innamorarsi. Se uno non mette le mani nell'angoscia sottostante a queste dipendenze si perde tempo". In parole povere Tonioni evidenzia come il medium non abbia una vera e propria colpa e che dietro ad atteggiamenti eccessivi e a una fruizione esagerata c'è molto altro.

"La maggior parte sono maschi. Un ragazzo deve stare davvero male per finire qui", spiega Tonioni. "Smette di andare a scuola, di uscire di casa, di avere contatti dal vivo, non fa sport. Gioca e basta tutto il tempo disponibile, anche 20 ore al giorno. È il corrispettivo dell'anoressia nelle femmine. Sono due modi di scomparire". Lo psichiatra comunque sottolinea come sia importante distinguere chiaramente tra la dipendenza e la iper connessione, due cose molto diverse dato che in questi tempi i periodi di abuso di certi media o comunque una passione smodata per il digitale non possono di certo essere considerati patologie.

"I limiti vanno messi, senza drammatizzare e tenendo presente che i problemi vengono quando la presenza dei genitori viene sostituita dal tablet, perché il tablet come gli smartphone sono dei babysitter formidabili. Se un genitore gioca insieme al figlio e guarda insieme al figlio il tablet il figlio si diverte e divertirsi insieme a un genitore non può fare male per definizione. La cosa importante per i figli è non giocare da soli".

La Iena, Matteo Viviani.

Viviani, con un tono che sembra quasi stupito inizia quindi a elencare diversi effetti positivi dei videogiochi evidenziati da numerosi studi: migliorare l'attenzione, la concentrazione, la capacità di risolvere i problemi e prendere decisioni e sottolinea la necessità di non esagerare anche grazie alle parole del pro player Nicolò Insa Mirra, che racconta anche alcuni retroscena di ciò che effettivamente significa essere un giocatore professionista nel panorama eSport.

La chiusura del servizio è sicuramente interessante: "Quello che abbiamo capito dando un'occhiata un po' più da vicino a questo mondo è che forse, come sempre, è la misura a fare la differenza. Non è il videogame in sé o cosi come questo (lo smartphone) che ci devono spaventare". Con Shapiro che sottolinea: "Dobbiamo riconoscere che questa tecnologia è qui per rimanere, che fa parte della nostra vita, e dobbiamo pensare a come guidare i nostri figli integrandola in un modo salutare".

Alcuni luoghi comuni e alcune semplificazioni non mancano di certo ma per essere un servizio trasmesso da un programma in molti casi becero, su una rete Mediaset, poteva andare decisamente molto peggio non credete?