L'epoca dell'iper-consumismo nel mercato dei videogiochi
Là dove il grande fenomeno nasce e muore nel giro di due settimane.
Questo non vuole essere l'ennesimo articolo incentrato sulla carica virale di videogiochi come Fortnite, sull'esplosione di Twitch e della cosiddetta "content creation", o ancora su qualche streamer americano che finisce a dirigere il capodanno di Times Square. Non vuole essere una denuncia, non ha la pretesa di insegnare qualcosa, non vuole puntare il dito verso un'ipotetica forza oscura che si muove nel mercato dei video games.
Vuole semplicemente raccontare i mutamenti che hanno caratterizzato l'approccio del pubblico al mondo dei videogiochi nel corso degli ultimi anni, nello specifico fra il 2017 e il 2021, con qualche riferimento alle correnti che hanno portato fino all'era del "fenomeno mediatico", con qualche parola di commiato verso un'istantanea del medium che oggi non esiste più.
Una fotografia che parla di una generazione cresciuta lontano dalla mole di informazioni prodotte dal web, in un mondo fatto di condivisione e di dialogo, dove l'atto di spolpare lentamente un'opera non costituiva un peccato mortale, dove l'attesa del piacere era ancora una piccola parte del piacere e non un fastidioso intermezzo costellato di critiche e dubbi sotto la spada di Damocle dell'hype. Un mondo che abbiamo in parte raccontato nel nostro articolo dedicato a Bugs Bunny Lost in Time.
Un mondo in cui bisognava pazientare prima di mettere le mani sul prossimo grande videogioco, riservando il giusto respiro a qualsiasi prodotto d'intrattenimento e conservando un po' di spazio per l'assimilazione e la discussione, tutto il contrario della fruizione cosiddetta "binge", che letteralmente significa "abbuffata". Un mondo che era più lento, dove la lentezza aggiungeva valore alle passioni, dove il bianco e il nero non avevano paura di confondersi nel grigio in mezzo ai dialoghi fra gli appassionati.
Ecco, se ricordate un mondo come questo è possibile che siate cresciuti prima dell'esordio del Nerwork Adapter per PlayStation 2. È possibile che alcuni fra voi abbiano vissuto l'epoca delle prime home console, magari anche la grande crisi del mercato dei videogiochi del 1983; altri probabilmente andavano a scuola e si scambiavano forsennatamente informazioni riguardo l'ultimo capitolo di Final Fantasy con i compagni di classe, altri ancora tastavano il terreno dei primi forum online.
Ma il passato è passato, e oggi parleremo dell'iper-consumismo nel mercato dei videogiochi. Ovvero del periodo storico che sta caratterizzando la nostra contemporaneità, di un modello che sì, ha raggiunto la sua piena realizzazione solamente nel corso degli ultimi tre anni, ma che trova le sue radici sul finire dell'ottava generazione di console.
Prima, però, dobbiamo chiarire cosa s'intende con l'iper-consumismo nel mercato dei videogiochi, anche se c'è ben poco da chiarire, perché si tratta di una situazione sotto gli occhi di tutti, ed è evidente che ormai "il grande fenomeno mediatico" nasca e muoia nel giro di due settimane. La smania di consumo è cresciuta a dismisura, i tempi di consumo si sono enormemente ridotti, i media digitali sono cresciuti esponenzialmente, l'offerta non riesce a tenere il passo con la domanda.
Il risultato di questa equazione è una modalità di fruizione che vive di grandi prodotti di enorme successo, destinati a durare poco e ad essere rapidamente sostituiti, ovviamente non prima di essere divorati, svuotati, per l'appunto iper-consumati dal pubblico e dai media, fino a finire dentro un cassetto ed essere altrettanto velocemente dimenticati.
Diamo un'occhiata al 2020, ad esempio, l'anno in cui i videogiochi "hanno mostrato al mondo tutto il loro valore". Il 2020 è stato un anno mediamente povero per quanto riguarda la produzione videoludica, con tanti progetti rimandati e poche uscite che sono riuscite a tenere il passo con i folli ritmi dell'industria moderna. Eppure, è stato l'anno del fenomeno Animal Crossing, del fenomeno Valorant, del fenomeno Fall Guys, del fenomeno Among Us, del fenomeno Phasmophobia, del fenomeno Genshin Impact, e perché no, anche dei fenomeni The Last of Us Parte 2 e Cyberpunk 2077.
La lente d'ingrandimento della comunità videoludica internazionale si è mossa come l'occhio di Sauron in cerca di attrazioni, contenuti, scandali, e una volta esauriti è tornata a muoversi frenetica verso il prossimo obiettivo. Per qualche tempo si è ancorata Valheim, fino a pochi giorni prima teneva d'occhio la rinascita di Rust, che a sua volta aveva occupato il posto lasciato vacante da Cyberpunk 2077. Si tratta di una scia di briciole che è possibile seguire fino a un punto zero, ovvero l'esordio della mod Battle Royale di H1Z1 realizzata nientemeno che da PlayerUnknown, il videogiocatore e sviluppatore che nel 2017 ha dato vita all'omonimo titolo prodotto da BlueHole Interactive.
Ma non basta una scia di briciole per spiegare una situazione tanto complessa. Perché le community di videogiocatori sono sempre esistite, hanno sempre consumato, condiviso, esplorato e spinto al limite i propri mondi preferiti, pur senza raggiungere dimensioni globali. Hanno iniziato a raggiungerle solamente attraverso quelle release che hanno completamente trasceso qualsiasi proiezione di vendita, quelle che per la prima volta hanno trasformato i videogiochi in veri e propri "must have", passaggi obbligatori per chiunque dedicasse il proprio tempo libero alla nostra passione comune.
Sia chiaro che non siamo convinti di aver scoperto l'acqua calda, ed è evidente che questo genere di evoluzione non abbia toccato solamente il mercato dei video games. Alcuni fra voi staranno pensando che questo è il funzionamento di qualsiasi "trend" nei confini della nuova socialità digitale, ma è solo di recente che i trend hanno iniziato ad autoalimentarsi, raggiungendo proporzioni tali da attrarre come buchi neri chiunque fosse intenzionato a mantenersi rilevante, assorbendo tonnellate di dati, informazioni e contenuti, fino a svanire improvvisamente senza lasciare traccia.
Fra i primi megatrend emersi dal tessuto dei videogiochi troviamo nomi del calibro di The Elder Scrolls V: Skyrim e The Witcher 3 Wild Hunt, due produzioni della vecchia scuola, realizzate con in mentre il single player, inizialmente parte di brand nati per soddisfare le esigenze di nicchie piuttosto contenute. Entrambi, alla fine, hanno infranto il muro delle trenta milioni di copie vendute, raccogliendo tonnellate di premi e monopolizzando l'attenzione del pubblico, della stampa e dei content creators, spingendo qualsiasi appassionato "degno di tale definizione" a confrontarsi con i loro mondi virtuali.
È li che risiedono le fondamenta della filosofia del "videogioco come evento", del grande prodotto d'intrattenimento che deve essere perfetto e riuscire a soddisfare tutti. È allora che è iniziata a nascere la moderna cultura dell'hype, quella capace di alterare la percezione e di far lievitare le aspettative oltre il limite consentito. Non è un caso che Bethesda e CD Projekt stiano attraversando periodi difficili: riprendersi da un clamoroso successo internazionale è ben più difficile che rimettersi in piedi dopo un tonfo inaspettato.
Attraverso gli Skyrim, i Grand Theft Auto e le avventure di Geralt si è realizzata una forma embrionale di massificazione che, in concomitanza con l'avvento dell'età dell'oro dei titoli multigiocatore, è esplosa nell'universo digitale della creazione di contenuti. Così, il desiderio di una nuova grande avventura ha ceduto il passo all'hype, l'hype ha catturato nella sua rete un pubblico molto più ampio, e quel pubblico di massa oggi si trova trascinato in un vortice di dipendenze inconsapevoli.
Questo genere di fruizione si porta dietro una lunga serie di disfunzioni. La prima, la più evidente, di questi tempi è sotto gli occhi di tutti: il pubblico non è mai soddisfatto. Che si tratti di eventi come State of Play, Nintendo Direct, addirittura dell'E3, tanto il pubblico quanto gli addetti ai lavori faticano a nascondere una sorta d'insoddisfazione permanente, senza dubbio figlia dell'aspettativa irrealistica ma, cosa ben più grave, pronta a svilupparsi nel tempo di uno schiocco di dita in un turbine d'odio verso il singolo prodotto.
A quanti backlash abbiamo assistito nel corso degli ultimi cinque anni? Potremmo fare un listone che ruberebbe qualche carattere alla lunghezza dell'articolo, ci sarebbe solamente l'imbarazzo della scelta fra un Battlefield,un Cyberpunk, e un Death Stranding qualunque. La dipendenza dalla pipeline di produzione ha ormai costruito un pattern che si ripete sempre simile a sé stesso, dai rumors alle speculazioni fino all'annuncio, dalle notizie in sede di sviluppo fino agli eventuali leaks, dal lancio roboante fino al bivio finale che vede la consacrazione da una parte e l'odio dall'altra, in un mondo in cui il fallimento è ormai un contenuto decisamente più appetibile di un successo. Assistere alla caduta di un gigante, oggi, è il massimo dell'intrattenimento.
L'odio, tuttavia, è ormai una costante, ed è probabile che lo sia diventato proprio a causa della massificazione dei prodotti. Il fatto che un'opera come The Last of Us Parte 2 di Naughty Dog sia stata capace di spaccare l'utenza e attirare minacce di morte sugli interpreti è una testimonianza concreta che i videogiochi stiano arrivano a un pubblico molto più ampio rispetto a quanto preventivato. Varcano insomma i confini delle proprie nicchie, per quanto queste possano essere vaste, coinvolgendo in dimensioni politiche e morali anche persone che esigono di non essere messe di fronte alla politica e alla morale.
Senza scomodare la "politica" di The Last of Us Parte 2, si può fare un esempio più concreto nei confini di Sekiro: Shadows Die Twice di From Software. Se ben ricordate, l'esordio del GOTY 2019 fu accompagnato da una sonora dose di critiche, persino sulle nostre pagine, riguardo la presunta difficoltà esagerata dell'ultima opera di Miyazaki, riguardo l'inserimento di una modalità facile, riguardo insomma una serie di tematiche figlie dell'evidente clash fra un progetto inizialmente destinato a una nicchia e le incomprensibili esigenze di un enorme fetta di pubblico per nulla avvezza al genere.
Il che sarebbe un po' come andare a cena in un ristorante libanese vegetariano e lamentarsi del fatto che la carta non offre neanche un pezzo d'agnello. Come ricordato recentemente da Il Post, nel 1983 Giorgio Manganelli scrisse un editoriale in cui sostanzialmente affermava che "non si può avere un'opinione su tutto". Ecco, oltre a costituire un'istantanea più che mai azzeccata dei nostri profili social, l'editoriale del Manganelli riesce a inquadrare perfettamente il problema della ricezione dell'opera videoludica di tutti e per tutti.
Tornando in carreggiata, la dinamica "annuncio, hype, consumo, swipe" si è risolta, nel corso del 2018, in un profondo mutamento dell'approccio ai meccanismi di produzione del videogioco, dal momento che le grandi opere d'intrattenimento hanno ceduto il posto a fenomeni mediatici più semplici, giovani e veloci. Lo spartiacque segnato da Fortnite e PlayerUnknown's Battlegrounds ha alzato il sipario su un'era dei "15 minuti di notorietà" così come immaginata da Andy Wharol, ed è un peccato che questa lettura si possa ormai applicare anche al "caro vecchio" mercato dei video-games AAA. Un Fall Guys che viene divorato e scompare nel nulla fa molto meno rumore della carcassa ormai svuotata di Cyberpunk 2077.
Come sottolineato in apertura, questa non vuole essere un'analisi moralizzante, ma vale la pena prestare attenzione al fenomeno, specialmente quando ci si rende conto delle pesanti conseguenze sociali del moderno approccio al mercato. Ogni volta che leggiamo una notizia che parla del crunch all'ombra di un grande publisher, ogni volta che centinaia di dipendenti vengono lasciati a casa da multinazionali come Activision-Blizzard, ogni volta che uno studio di sviluppo si trova costretto a chiudere i battenti, bisognerebbe navigare fra cause e concause per tentare di darsi una spiegazione.
La triste verità è che una minuscola parte di quella spiegazione si può spesso trovare nel commento acre che si è lasciato sotto un post, nello sconcerto che segue un rinvio, nella memetica emersa dall'inadeguatezza di un evento di comunicazione, nella totale incapacità di attendere pazientemente, insomma, nelle piccole azioni che chiunque viva a stretto contatto con il mondo dei videogiochi tende a ripetere sistematicamente senza prestarci troppa attenzione.
Poi, certo, c'è anche il fatto che si tratta di un mercato talvolta guidato da mega-corporazioni ormai divenute avide al limite della distopia. Ciò che non dobbiamo dimenticare, tuttavia, è che questo mercato starà pur diventando un marchingegno enorme e spaventoso, ma senza il contributo di noi tutti il marchingegno non si muove.