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Little Joe - recensione

Meglio un giorno da leoni arrabbiati o cento da pecora serena?

C'è un bel fiore, creato in laboratorio, bello ma sterile (come per tante sementi dei nostri tecnologici giorni), modificato affinché emetta un profumo speciale che stimola il cervello a produrre ossitocina, l'ormone che influisce sui comportamenti sociali, sessuali e materni.

La pianta deve però essere coltivata con cura, ha bisogno di una temperatura costante, della giusta luce, dell'acqua e di particolari sostanze nutrienti, di affetto dimostrato anche a parole: di amore, insomma. Del resto di un nostro affetto, non diciamo che lo coltiviamo come un fiore? E così al fiore è stato anche attribuito un nome, Little Joe, come il figlio della protagonista.

Lo staff dell'asettico laboratorio è umanamente diviso fra soggetti di varia personalità, con relativi conflitti interni e poche alleanze. La ricercatrice responsabile del progetto, Alice, è una madre separata, fitogenetista ambiziosa e attenta ai problemi economici della sua company. La giovane donna vive in funzione del lavoro e del figlio. Anche se l'amore per il ragazzo, un quasi adolescente, è spesso ostacolato dalla sua passione per il lavoro.

Strani fatti iniziano a verificarsi: piccole cose, niente di eclatante. All'inizio la prima a mostrare perplessità e avversione nei confronti del fiore sarà solo un'anziana ex ricercatrice, declassata per problemi psicologici. Intanto tutti i personaggi che ruotano intorno ad Alice sembrano diventare più rilassati, ragionevoli, migliori insomma, mentre lei inizia a nutrire i primi dubbi, nonostante il bel fiore sia proprio una sua "creatura".

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Un senso di appartenenza sembra accomunarli, un'unità d'intenti tesa a difendere Little Joe per aiutarlo a vivere e moltiplicarsi (perché riprodursi non può). Le preoccupazioni che lentamente Alice inizia a nutrire sono solo paranoie o invece è la ricercatrice che non riesce a sottrarsi ai suoi personali problemi?

Chi mantiene le caratteristiche della sua peculiare personalità, della sua razionalità, rischia di passare per pazzo e di finire emarginato, ospedalizzato addirittura. Quindi perché non abbandonare la faticosa lotta per affermare la propria individualità e lasciarsi serenamente andare lungo il flusso comune?

Little Joe è scritto (insieme a Géraldine Bajard) e diretto dall'austriaca Jessica Hausner, dopo l'interessante Lourdes dove, anche se in modo molto diverso, ci s'interrogava già sulla capacità mentale di auto-manipolazione. Il primo film in lingua inglese della regista era stato visto a Cannes nel 2019 e oggi approda coraggiosamente nelle non molte sale aperte grazie a Movies Inspired.

Come può tanta bellezza essere pericolosa?

Little Joe è senza dubbio un film debitore al grande classico 'Invasione degli ultracorpi', quello con i mitici baccelloni, ma in generale si rifà a libri e film degli anni '70 (e su paranoie sulla perdita della propria individualità aveva già detto quasi tutto Philip K. Dick). Ma senza eccessi, con una graduale escalation, tratta nuovamente un tema sempre affascinante e che nel tempo è rimasto sempre di attualità: la perdita della propria irripetibile personalità, l'influenza subdola dei mille condizionamenti che ci omologano, ci plagiano quasi a nostra insaputa, modificandoci in un senso che non avremmo desiderato, vittime magari di un Potere che così ci può manovrare per il proprio interesse.

Il film è interpretato da una glaciale Emily Beecham (le serie Into the Badlands, The Village), Ben Whishaw è il collega scienziato innamorato ma timido e Kit Connor è il figlio sempre un po' inquietante, visto in Rocketman e Ready Player One. La ricercatrice emarginata è affidata alla faccia nota della veterana Kerry Fox.

Può una ricercatrice essere una buona madre?

Ad accompagnare l'azione echeggia una disturbante colonna sonora di cui è responsabile il sound engineer Malcolm Cromi, che aiuta a incrementare l' inquietudine. Bella anche la fotografia, con un'evidente cura nella composizione di certe inquadrature e nella scelta dei colori, fra cui spicca il rosso/arancio vivo e brillante del fiore. I costumi sono della sorella della regista.

Little Joe non è la pianta assassina de 'Il giorno dei trifidi', non è la Audrey carnivora della 'Piccola bottega degli orrori', non produce la neurotossina che induce al suicidio come in 'E venne il giorno', non è la melma di palude da cui nasce 'Swamp Thing'. Se La cosa era il Moloch mostruoso che ci voleva inglobare, Little Joe è un gentile fiore che con la sua spruzzatina di polline sterile cerca di ammaliarci, di connetterci in nome di un fine più alto. Che è solo il fine di un fiore, ma se fosse qualcosa di diverso (alieni, un'ideologia politica) varrebbe lo stesso.

Il sogno di uniformare l'umanità fa parte di ogni regime totalitario, tutti uguali e felici delle stesse cose, senza tensioni, senza picchi emotivi, senza le mille sfaccettature che fanno di noi un esemplare irripetibile e unico (ma davvero tutti "valiamo" tanto?). Meglio una vita felice, uguale a quella di tutti gli altri, con quello che ci viene somministrato artificialmente come droghe, medicine e fake news, o è meglio un'esistenza libera, raziocinante, arricchita dai nostri mille individualismi, anche più complicata ma più appassionante?

Il difficile amore fra camici da laboratorio.

Ogni passione spenta è un augurio o una minaccia? Little Joe, come tutti i prodotti di fantascienza validi, diventa anche fantapolitica. Non ambisce a restare negli annali del cinema ma merita un suo posto negli elenchi di genere; non un horror tragico ma una storia surreale che si limita a suggerire una suggestione su cui riflettere. Per restare sul leggero, viene in mente una battuta sugli antidepressivi che Woody Allen aveva messo in bocca a un suo personaggio: "non ho più quei terribili bassi ma quanto mi mancano i miei alti".