Mega Man 9
Solido come una roccia.
Solitamente cerco di resistere alla tentazione di includere citazioni dai press kit nelle mie recensioni, soprattutto perché preferisco mantenere un po' di mistero riguardo ad un aspetto dell'industria non del tutto conosciuto. Se infatti aveste modo di scoprire la scintillante verità di quel che accade dietro i dorati ingressi del business dei videogame (indizio: un sacco di cosacce) dove sarebbe la magia? A dispetto di ciò, la lettera che accompagnava il codice review della nona avventura di Mega Man è qualcosa di troppo perfetto per non essere almeno parzialmente condiviso.
"Noi abbiamo intenzione di FARVI DEL MALE", inizia così, in modo allarmante. "Mega Man 9 è il gioco più difficile di sempre", proclama con orgoglio, a testa alta. "Morirete in ogni livello. Almeno un centinaio di volte", la lettera continua, forse più vicina ad una minaccia terroristica che ad un invito a giocare. "Il nostro obiettivo è quello di farvi piangere e di farvi dare un taglio, non solo col gioco, o con i videogames in generale, ma con la vita vera e propria".
Oibò. Capcom vuole spingerci al suicidio, e la sua arma per riuscire nel suo intento è... un retrogame?
Mega Man 9 è un gioco NES (sì, proprio la console 8-bit che vi ha fatto conoscere Mario e che ora starà prendendo polvere da vent'anni chissà dove in cantina...) per Xbox 360, PS3 e Wii. Ma a differenza dei recenti giochi in digital delivery di Capcom, non si tratta di un seguito ammodernato o di un remake. Questo è innegabilmente e assolutamente un gioco di Mega Man per NES, a partire dalla musica scricchiolante per arrivare agli sprites pixellosissimi, passando naturalmente per i controlli rigorosamente basici. Soltanto che è stato realizzato nel 2008 per il trio di piattaforme disponibili oggi.
Ed è anche fottutamente difficile. Esiste però una linea di confine tra "difficile" e "ingiusto", ed è nello stretto spazio tra i due che si fa la differenza tra un retrogame valido ed uno meno riuscito. E per fortuna Mega Man 9 è un validissimo retrogame.
Praticamente tutto ti uccide. Questa è la primissima cosa che si impara. La barra di energia del robotico protagonista si esaurisce in un batter d'occhio tramite il semplice contatto con i numerosi nemici e ostacoli (alcuni dei quali possono essere spazzati via grazie alle armi), ma ci sono circostanze in cui viene da pensare che sia fisicamente impossibile raggiungere la fine del livello senza danno alcuno.
Per rendere il tutto ancora più viscerale, ogni impatto fa arretrare leggermente il nostro avatar. Proprio quel tanto che basta per farlo cadere da una piattaforma, dentro ad un pozzo mortale o in qualche trappola zeppa di aculei. Mmm, grazie.
A dispetto di ciò tuttavia, quando si verifica il peggio si ha sempre la consapevolezza che l'errore sia tutto nostro. Come la maggior parte dei titoli 8-bit (o dei giochi creati in quello stile), l'ultima fatica Capcom funziona con la precisione e la regolarità di un orologio. Ogni cosa è calcolabile, tutto segue un pattern definito. E l'identificazione di quel pattern, al fine di coglierne le debolezze per evitare di essere uccisi, è il cuore pulsante del gameplay. Ben lungi dal divenire routine, è una costante camminata sul filo fatta di schemi sempre capaci di offrire al giocatore inediti pericoli da affrontare. E ovviamente, come da sadica tradizione retro, se si muore si ricomincia da capo.
Alcuni si lamenteranno (anche in maniera comprensibile) dinnanzi ad una scelta di design tanto crudele e antiquata, eppure fondamentale per alzare all'infinito la posta in gioco. Il gioco non accetta soluzioni di ripiego, e non esiste second best che tenga: una soluzione che ci riporta ai tempi in cui completare l'ultimo livello era un'impresa che richiedeva mesi o addirittura settimane di vera e propria ossessione, grazie alla quale si acquisiva tuttavia una consapevolezza di gioco ormai smarrita nel gaming da "una botta e via" di oggi.