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Mi manca rimanere bloccato nei giochi di Tomb Raider - editoriale

In fondo al mar...

Quando sento qualcuno parlare dei grandi giochi del passato, quelli in cui i designer ci lanciavano nel bel mezzo dell'azione, senza condurci per mano (Tim Schafer una volta ha detto: “rimanere bloccati con un enigma? Noi li chiamiamo contenuti”), penso subito ad un gioco particolare che faceva proprio questo. A circa un terzo dell'avventura di Tomb Raider 2, Lara Croft faceva un breve giro su un sottomarino. Il viaggio era breve perché il sottomarino si schiantava presto, esplodeva o succedeva qualche disastro simile. Ad ogni modo, la cutscene si interrompeva bruscamente, il livello successivo iniziava e... beh, ti ritrovavi immerso nell'oscurità assoluta. Stavi galleggiando sul fondo dell'oceano, circondato da ombre e acqua e non molto altro. C'è, inizialmente almeno, un piccolo suggerimento su dove andare. Al primo incontro con questo livello, ho pensato che il gioco si fosse rotto in un modo molto insolito: era come se l'ambientazione fosse rimasta intatta ma il gioco avesse, in qualche modo, esaurito la narrativa per riempirla. Avevo la sensazione che i designer avessero posato i tool di creazione e si fossero tirati indietro.

Sono morto decine, centinaia di volte, sul fondo di quell'oceano. Poi, però, ho iniziato a sperimentare. Alla fine, dopo un po' di tentativi, ho trovato una serie di fusti di petrolio o roba simile, una specie di guida. Ho seguito la traccia e alla fine, dopo essere morto altre volte, ho raggiunto un relitto affondato dove ho potuto recuperare il fiato. Questa sequenza potrà sembrare terribile, probabilmente, ma era davvero brillante. Paradossalmente, è stato uno dei miei momenti preferiti tra tutti i Tomb Raider.

L'idea che i giochi fossero migliori quando erano più difficili e più enigmatici è uno degli argomenti più fastidiosi legati al media. I termini sono vaghi: ci sono tanti modi per un gioco di risultare ostico, non tutti intenzionali o lodevoli. Non credo di essere d'accordo nemmeno con la premessa, in realtà. C'è una serie, però, in cui penso che questo concetto sia assolutamente vero, almeno per quanto mi riguarda. Mi manca davvero tanto il fatto di rimanere bloccato in Tomb Raider.

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Sto giocando a Shadow of the Tomb Raider in questi ultimi giorni ed è un'esperienza affascinante, a volte frustrante. Adoro il fatto che i designer stiano cercando di affrontare i vari problemi del passato della serie, anche se c'è una certa goffaggine nel modo in cui questo viene fatto. Adoro il fatto che ci sia un tentativo di offrire diversi stili di gioco, anche se il crafting e, in particolare, le sezioni stealth risultano un po' zoppicanti per mancanza di consistenza e per uno scripting davvero pesante. La cosa, però, che mi convince di meno è il fatto che il gioco sembra ambientato in una serie di mappe meravigliose che non sembrano mai un luogo reale. Appaiono come palcoscenici in cui muoversi velocemente, posizionarsi sui segni e dire le battute, svoltare qui, sparare lì e risolvere semplici puzzle. Non ti dà mai la sensazione di trovarti in quel momento o di essere immerso in quel mondo in modo significativo. Credo che tutto questo sia dovuto al pulsante che indica costantemente dove andare. Anche se scelgo di non utilizzare quel tasto, so che c'è e il solo sapere della sua presenza sottrae al immedesimazione al mondo di gioco. Oltre a questo, proprio a causa del fatto che il tasto è lì, l'art direction non si impegna a costruire il mondo in modo da condurre il giocatore tramite stimoli visivi.

Questo non era il caso di Tomb Raider. Per tornare a Tomb Raider 2, quel gioco aveva un tale senso del luoghi che, quando lo giocavi, ti sembrava di esserci entrato dentro e di aver richiuso la botola in alto. Mi ricordo di essere uscito da alcune sessioni di gioco con la sensazione di essere riemerso da qualche parte. Non era semplicemente la scelta delle location, credo, o il fatto che ero più giovane e potevo giocare per ore ed ore all'epoca. Il design grafico del gioco non era più artistico o caratteristico: ci sono alcuni panorami di Shadow of the Tomb Raider che superano in bellezza e suggestività qualsiasi altra cosa abbia mai visto in un videogioco. Penso che sia semplicemente dovuto al fatto che ho passato molto più tempo lì, andando avanti e indietro, muovendomi tra un punto promettente e l'altro, con l'intero posto completamente vuoto perché avevo già ucciso tutti. Ho svuotato questi mondi nel tentativo di capire come funzionavano, perché il mondo era spesso un grande enigma e, cosa più importante, perché ero assolutamente bloccato.

È così che giocavo a Tomb Raider, comunque. Mi piaceva esplorare ogni centimetro di quei giochi facendo ogni volta piccoli progressi, lentamente. Era come tentare di perforare un vecchio muro, spesso e irregolare: a volte colpivi una cavità e facevi un sacco di progressi ma poi trovavi una specie di materiale rinforzato e rimanevi di nuovo bloccato. Penso spesso alla Opera House di Tomb Raider 2 e non solo perché é un livello fantastico ma anche perché ci sono rimasto per mesi. Le stagioni cambiavano mentre io cercavo di capire cosa fare. Forse avrei dovuto pagarci l'affitto, ora che ci penso. Andavo avanti e indietro, provando nuove cose, controllando qualsiasi cambiamento nelle vicinanze in seguito all'attivazione di un interruttore o al collasso di un po'di scenario, pensando al rapporto tra una stanza e l'altra. Pensavo di dover entrare in un posto calandomi in esso, invece di trovare una via d'accesso a livello del terreno e, inevitabilmente, pensavo anche che il gioco potesse essere rotto. Non avevo internet, a quel tempo (è stato un anno orribile per me, dopo aver lasciato l'università senza un obiettivo preciso per il futuro) e perciò non potevo cercare suggerimenti online.

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Allo stesso modo, non volevo spoilerarmi niente. Per quanto fosse frustrante rimanere bloccato, era anche piacevole. Il gioco continuava a rimanere nella mia mente, pensavo a come risolvere il problema. Ci giocavo, in un certo senso, anche quando ero per strada, rimuginando su come venire a capo dell'enigma del boiler. Mi svegliavo nel cuore della notte con una nuova idea per un approccio diverso. Valutavo anche i meandri più oscuri del moveset del gioco, inclusa quella strana cosa che si poteva fare a mezz'aria per coprire distanze maggiori, rispetto ad un salto normale. Camminavo lungo tutti i percorsi, guardavo in ogni angolo alla ricerca di qualsiasi cosa potessi aver mancato. Tutti quei luoghi erano architettonicamente reali, in quanto i loro spazi, in genere non venivano interrotti da filmati, mentre le stanze separate sembravano avere una relazione coerente l'una con l'altra ed erano anche reali a livello di texture: ho imparato a conoscere ogni tipo di materiale, ogni schema ripetuto di pietra o ruggine.

A volte mi chiedo se quello era un buon design. Nei successivi giochi Core, quasi certamente non lo era: il design degli spazi in Chronicles, in particolare, sembrava profondamente arbitrario e il progresso era spesso basato sulla ricerca di piccoli dettagli in posti che normalmente non avresti mai visto o sull' ingannare un NPC per fargli fare qualcosa che non aveva molto senso. Una delle cose strane del design scadente, tuttavia, è che, a volte, molto raramente, può dare carattere di gioco. Quando ripenso a quei primi Tomb Raider, infatti, penso spesso a loro in termini di carattere: erano scontrosi, segreti e precisi. Erano pungenti e pedanti e costruivano i loro mondi di conseguenza.

Continuavo a giocarci per due ragioni, penso. Uno è a causa di Lara Croft. Non interpreti davvero Lara Croft in Tomb Raider, penso. Giochi nei panni di qualcuno intorno a lei in modo strano. Sei vicino e la controlli ma sei anche separato e testimone. In quei primi giochi sentivo un genuino senso di voler interpretare la persona che era nei filmati. Era decisa, acrobatica e caparbia. Io, invece, ero in gran parte perso e stupido in Tomb Raider. Volevo colmare il divario tra i nostri modi di pensare e agire.

Quel divario era parecchio ampio, a quel tempo. Ricordo un momento, in uno dei giochi successivi, in cui stavo letteralmente girovagando avanti e indietro guardando il tappeto alla ricerca di una chiave che ero sicuro dovesse trovarsi lì. Era come essere un bambino e aver perso la componente cruciale di un giocattolo, il che significava che non potevo divertirmi a giocare senza di esso.

E poi c'era la bellezza dell'itinerario. Questo credo fosse particolarmente vero per Tomb Raider 2 in cui si visitavano antichi monumenti ma anche moderne aree industriali dismesse. Quella nave in fondo all'oceano, quella piattaforma petrolifera, arrugginita e vibrante di energia sepolta e solitaria, a suo modo, era come qualsiasi tempio dormiente.

Molti anni fa, però, è stato deciso che la difficoltà, la sfida, nei videogiochi era sempre una cosa negativa. E lo era, nella maggior parte dei casi! Molti giochi hanno tratto beneficio dalla Detective Mode, dai punti di interesse che apparivano a schermo. Adesso finisco molti più giochi e vedo molte più delle cose che possono offrire. Ricordo di essermi perso in un primo Halo, ad esempio, e di aver pensato che fosse la cosa più brutta del mondo. Con Halo 3, invece, sarebbe comparso un piccolo waypoint se avessi vagato nella direzione sbagliata per troppo tempo e avrei ringraziato quel segnalino ogni volta che mi fossi dimostrato così stupido da averne bisogno.

Ma in Halo l'esplorazione non è un elemento cardine, immagino. Non si tratta davvero di risolvere i puzzle. In Tomb Raider, invece, al di là della ricerca degli oggetti, delle doppie pistole e delle trappole, entrambi hanno davvero importanza. Tomb Raider, in un certo senso, si basa sull'affrontare e superare la sfida. Ora che la sfida è sparita, mi manca tanto.