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Il killer di Christchurch si "allenava con Fortnite": Repubblica parla di videogiochi ma è davvero tutto da buttare?

Un trafiletto che fa discutere.

Si sa, quando la stampa generalista inizia a parlare di videogiochi e lo fa associando uno dei titoli più in voga del momento a un fatto estremamente negativo e crudele di attualità in tutta la stampa specializzata e nei fan di questo medium scattano più campanelli d'allarme. Conoscendo le abitudini della stampa i dubbi sono quanto meno legittimi: come verrà trattata la nostra passione in questo caso?

Un articolo di Repubblica associa il killer di Christchurch a Fortnite e lo fa, soprattutto inizialmente, in un modo quanto meno discutibile. Ma è davvero tutto da buttare? Sicuramente il titolo lo è: "Punti, spari e vai avanti Si allenava con Fortnite". Brenton Tarrant, il terrorista che negli scorsi giorni ha attaccato due moschee di Christchurch (Nuova Zelanda) arrivando ad uccidere circa 50 persone ha affermato di aver giocato assiduamente il videogioco ma il titolo scelto da Repubblica non può di certo fare piacere a molti dato che sembra creare una correlazione diretta tra il videogioco e l'atto violento e crudele avvenuto nella realtà.

"Si chiama Battle Royale, 'battaglia suprema' ed è la categoria di videogiochi che sta sbancando il mercato. Tra loro Fortnite, il gioco su cui il killer di Christchurch dice di essersi allenato, ma il filone è ricco: Apex Legends e PUBG sono titoli giocati da centinaia di milioni di persone nel mondo". Poi c'è spazio per una descrizione più dettagliata del genere che viene definito "una battaglia tutti contro tutti surreale e sanguinosa".

Poi si torna all'associazione tra il terrorista e il videogioco:

"Se pensate ad un'arma da fuoco, nel gioco c'è. Ed è con questo arsenale virtuale che Brenton Tarrant, l'assassino della Nuova Zelanda, dice di aver fatto pratica prima di aprire il fuoco su decine di innocenti. Ma è possibile davvero allenarsi ad uccidere in un videogioco? Tenere in mano un'arma virtuale, con il livello tecnico raggiunto dai videogame, dal controller per giocare e dalla tecnologia delle armi, oggi forse può non essere molto diverso da premere un grilletto vero. L'atto in sé non è diverso nello svolgimento, si punta e si spara".

Se ci fermassimo qui ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli e da rassegnarsi ancora una volta all'ennesimo articolo della stampa generalista che attacca i videogiochi. Il pezzo di Tiziano Toniutti però prosegue e prende una piega da non sottovalutare.

"Ma un omicidio di massa non nasce, non matura all'interno di quello che è, pur con tutta la violenza simulata che può contenere, pur sempre un gioco. Tarrant ha ucciso parlando di Fortnite, dello YouTuber PewDiePie, mescolando elementi di cultura e subcultura digitale, come un abile "troll". Ma se nello schermo l'avversario scompare nel nulla, nella realtà il corpo delle vittime rimane in terra".

Sicuramente è la chiusura quella che forse dà maggior senso all'intero articolo:

"La differenza tra chi gioca e chi uccide nasce molto prima di avviare Fortnite, giocando non si diventa assassini. Resta la violenza del Battle Royale, colorata, esagerata, irreale e certo distante da quella vera".

Giocando non si diventa assassini è la frase emblematica di un pezzo che ha il suo più grande nemico in un titolo sensazionalistico che mette soprattutto i videogiocatori di fronte a un articolo che sembra voler denigrare ancora una volta un intero universo. Fermarsi al titolo è estremamente fuorviante, la prima parte del pezzo può confermare una sensazione molto negativa ma soprattutto la chiusura denota sicuramente un aspetto molto positivo che vede un trafiletto di un giornale "tradizionale" allontanare la classica narrazione che associa videogiochi e violenza nel mondo reale.