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Nomadland - recensione

Dedicato a quelli che non restano.

Fern, sessant'anni portati come la gente vera, è una donna che ha perso le uniche radici che la tenessero ancorata: l'amato marito è morto, l'azienda su cui girava l'economia della cittadina di Empire (Nevada) ha sbaraccato, lentamente la gente ne se è andata e le attività commerciali hanno chiuso, costringendo anche gli ultimi ad abbandonare.

Fern ha reso abitabile il suo pulmino, per avere un minimo di autonomia, e da un po' di tempo vive da nomade, girando il paese in base alle offerte di lavoro da bassa manovalanza che sono le uniche che un mercato ormai devastato le offre. Nei periodi festivi c'è Amazon, che con onesto compenso la mette a inscatolare gli ordini, poi segue le stagionali occasioni offerte dall'agricoltura e poi non resta che finire a fare panini e pulizie da qualche parte.

Lungo le strade di queste sopravvivenze, fra i due opposti del grande caldo estivo e del gelo invernale di stati come Nevada, South Dakota, Nebraska e California, si formano piccole comunità, alcune più intime, altre solo piccoli agglomerati in cui s'incrocia la gente che va e viene, in totale solitudine, talvolta anche per andare a morire lontano.

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La protagonista ha la faccia particolare di Frances McDormand, perfetta per questo personaggio, donna chiusa, cortese ma dai pochi sorrisi, imbarazzata quando deve esprimere quella gratitudine per un favore che non si aspetta. Altrettanto perfetto è l'altro personaggio che si evidenzia nel folto dei rapporti di superficiale convivenza di una vita in movimento, un uomo anche lui con qualche danno da qualche parte che gli ha impedito un'esistenza come si vorrebbe imporre.

Lo interpreta con la consueta delicatezza David Straithairn. E non c'è un personaggio di contorno che sia forzato, inutilmente pittoresco o fastidiosamente costruito come talvolta accade quando si mette in scena gente sostanzialmente eccentrica, che cioè ha scelto una traiettoria che si muove diversamente rispetto al resto della società. Si tratta di persone particolari che hanno deciso di elaborare a modo proprio un percepito rifiuto da parte della società così com'è comunemente intesa e del resto non sente di avere motivi per condividere le regole di quella società.

Ma attenzione: Nomadland (già vincitore di Leone d'Oro, Golden Globe e tre Oscar, disponibile su Disney+ e nelle sale) non è un film contro le dure leggi del capitalismo, che hanno buttato per strada migliaia di americani privati della casa dalla crisi del 2008; non è Furore con la durezza spaventosa di un sistema di sfruttamento avido e criminale dei più poveri nei primi decenni del '900.

Gente che va, gente che viene.

E nemmeno Easy Rider, che era anche lui più politico perché la fuga dei due protagonisti avveniva sull'onda della ribellione degli anni '60, rifiutando la guerra del Vietnam e le insane regole di vita di una società che aveva eretto il profitto come Moloch (rivedere Mad Men). Non è neppure Into the Wild (anni 2000), con quell'intransigente personaggio che, sopravvalutandosi, distruggeva ogni aiuto che la civilizzazione dava a chi volesse abbandonarla preferendo il mondo selvaggio (ma senza la necessaria preparazione).

Qui l'afasica (verbalmente ed emotivamente) Fern ha subito una svolta forzata e la deviazione che ne è seguita l'ha riporta dove in fondo era stata all'inizio: lì, a guardare l'enorme spazio vuoto del territorio, dove si può andare dovunque a cercare qualcosa di diverso in totale solitudine, affrontando da soli ogni conseguenza, con il vuoto di un'anima che non è mai riuscita a connettersi con il resto dell'umanità.

Niente di ideologico, quindi, sennò il film non sarebbe così bello, e niente di dichiarato, spiegato, perché è tutto così ben messo in scena, quanto a recitazione e regia, che arriva diretto al cuore (e perfette solo le musiche del nostro Ludovico Einaudi). Avveniva anche nel precedente film della regista cino/americana Cloé Zhao, che si chiamava The Rider, straziante ma bellissima storia di altre solitudini, ambientata in un desolato South Dakota.

Non è una colazione da Tiffany.

Questa storia è un adattamento del libro Nomadland, un racconto d'inchiesta scritto nel 2017 dalla giornalista Jessica Bruder. E mostra con delicatezza un lato invincibile dell'animo americano, che ha dentro di sé sempre un pezzetto di Frontiera per cui se hai cercato il Sogno e non l'hai trovato o lo hai perduto, sbaracchi e vai a cercarlo altrove, pronto ad affrontare ogni conseguenza. Quando in un posto non c'è più nessuno e quel posto diventa niente, si può scegliere di uscire, di lato, senza fare rumore.