Non aprite quella porta: Stesso titolo per l'ennesimo sequel
Nelle campagne del Texas nessuno ti sentirà urlare.
The Texas Chainsaw Massacre di Tobe Hooper, film del 1974, millantava l'ispirazione a fatti realmente accaduti, in particolare al serial killer del Wisconsin, Ed Gein, si dice già preso a modello per il Norman Bates di Psycho.
In realtà, calato come era in una particolare situazione socio-politica, di grande ispirazione proprio per il genere horror, raccontava una favola nerissima ed elementare, dalla quale trasparivano abusate massime popolari: non lasciare mai la vecchia strada per la nuova, non dare confidenza agli sconosciuti e, il sempre valido, la prudenza non è mai troppa.
Avevamo imparato tutti che certe porte non vanno mai aperte (come raccomandava amorevole Barbablù), che in certe campagne desolate non ci si deve avventurare, soprattutto se si è improvvidi cittadini, anche perché non c'è mai campo e che quando si deve fuggire non c'è tempo per guardarsi indietro.
La geniale invenzione del mostruoso assassino Leatherface e della sua famiglia di redneck cannibali ha prodotto una serie di film che comprende nove capitoli: il capostipite, tre seguiti, un remake per mano di Marcus Nispel nel 2003, un prequel, un trattamento in 3D, un altro prequel più focalizzato sul personaggio e, adesso, questo ulteriore sequel. A occuparsene sono Fede Álvarez e Rodo Sayagues, insieme già responsabili del remake de La casa e dei due Man in the Dark.
Se nel 1973 erano dei ragazzi superficiali in cerca di sballo ad avventurarsi nelle poco accoglienti lande del Texas, oggi troviamo on the road un gruppetto di giovani assortito diversamente: uno chef assai noto su Instagram, la sua fidanzata "artista" e una coppia di sorelle (una che sarebbe la socia del cuoco e l'altra, più giovane, scampata a un recente traumatico evento).
Troppo lontani da casa, arrivano nella ghost city di Harlow, nel mezzo del più piatto Texas, una cittadina fatiscente sgomberata dalle banche, comprata all'asta con l'intento di farla rivivere grazie a ristoranti, gallerie d'arte, botteghe artigianali, caffetterie e tutto ciò che fa la gioia dei moderni Yuppies, Tesla vs pickup diesel, insomma.
L'idea di far risorgere così il paesino sarebbe buona sulla carta (è successo anche in Italia in alcuni borghi), ma qui siamo a ore di auto dalla civiltà e non si sa quali siano le macerie su cui si vorrebbe ricostruire. Perché, ciliegina sulla torta, la zona è quella dove si era svolto il massacro originario del 1974, ancora vivo nella memoria collettiva, grazie a spettacoli in tv e podcast.
Nella cittadina sembra esserci sono una sola presenza umana, il manovale che ha dato una sistemata ad alcuni degli edifici, un tipo ruvido e poco affabile, che vede di mal occhio il gruppetto di millennials (quasi generation Z) così diverso da lui.
Ma i nuovi "colonizzatori" scoprono che in un orfanatrofio vicino vive ancora un'anziana donna, che ha rifiutato di sgombrare l'edificio, perché vi custodisce l'ultimo dei suoi "ragazzi", divenuto un uomo che va tenuto lontano dal resto dell'umanità.
Mentre un paio dei ragazzi intrattengono i possibili investitori, accorsi in massa all'evento su un pullman/discoteca, e la sorellina fraternizza con l'appaltatore, tutto sommato meno antipatico del previsto, la situazione precipita velocemente e lo splatter irrompe a 18 minuti dall'inizio. E che la festa cominci (sotto una fitta pioggia, evento non frequentissimo da quelle parti).
Dopo aver ammazzato con coltelli, tronchi di legno, mannaia e mazzetta, Leatherface (avevamo mai dubitato si trattasse di lui?) rispolvera la vecchia cara 'chainsaw'. Del resto, per cos'altro eravamo qui? Ma se i ragazzi hanno ridestato il mostro, senza saperlo hanno anche richiamano in campo la vecchia sopravvissuta Sally Hardesty (interpretata da un'altra attrice, però), che aspetta di chiudere i conti da 50 anni (e siamo allo schema di Halloween con la differenza che Sally è molto meno in gamba di Laurie/Jamie Lee e, nel finale, c'è proprio un brusco salto di sceneggiatura).
Questo "nipote" del prodotto storico ha il solo pregio di durare un'ora e un quarto. Peccato che lo schema sia ripetitivo e senza guizzi di originalità: tutto quello che accade è tanto, troppo prevedibile e derivativo. Il momento più godibile è una gustosa carneficina in un bus affollato di influencer, della serie 'ndo cojo cojo: non c'è che affondare la lama nel mucchio urlante, costretto finalmente a mettere via gli smartphone. Le comparse ci avranno messo una settimana per lavarsi bene.
Leatherface, pur ormai settantenne e appesantito nel fisico, è sempre invulnerabile, anche ai pallettoni (il Male non muore mai?). Si può avvertire una "sottile" polemica nei confronti di chi aborra l'uso delle armi, perché se una delle protagoniste era stata vittima di un loro abuso, alla fine guai a non averle.
Il film termina con un "colpo di scena" talmente prevedibile da sconfortare. Attenzione, perché c'è una breve scena dopo i titoli di coda, pratica che di solito Netflix non incoraggia. E così intuiremo che di film potrebbe essercene un altro. A questo punto non resterebbe che nuclearizzare, come si diceva per Michael Meyers.