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Peaky Blinders, la serie si conclude

Una riflessione finale su una delle migliori serie degli ultimi dieci anni.

L’articolo non contiene spoiler sulla stagione conclusiva, ma qualcuno su quelle precedenti.

Dal 2013, nell’arco narrativo di sei stagioni, Steven Knight, autore fra l’altro di film e serie tv come Piccoli Affari Sporchi, La Promessa dell’Assassino, Locke, Taboo e Spencer, ci ha raccontato, romanzandola ed estendendola nel tempo, la tragica storia di una gang che nella realtà ha operato in una Birmingham semi-distrutta dopo la Prima Guerra Mondiale.

In senso stretto il termine “Peaky Blinders” si riferisce alla forma affusolata del paraocchi del berretto che i membri della gang usavano indossare (letteralmente “Peaky Blinders” significa paraocchi a punta). Ma nella serie tv allude alle lamette che si dice i ferocissimi Peaky Blinders cucissero nei bordi dei loro berretti.

Come sempre, alla durezza di un sistema che sciaccia le minoranze e non concede speranza di riscatto, si risponde con uguale, opposta violenza, come tutti i grandi sistemi malavitosi ci hanno insegnato. Nel quartiere di Small Heath nasce così la banda della famiglia degli Shelby, di origine “gipsy”, che deve affermarsi e mantenere la sua supremazia in un movimentato melting pot di inglesi, irlandesi, italiani, zingari e cinesi. Occupano tutto lo spazio che hanno a disposizione, ossia rapine, scommesse, prostituzione, protezione e droga.

Nella gerarchia del gruppo lentamente emerge e si afferma Tom, reduce decorato al valore dalle trincee della Prima Guerra, combattuta per una patria che al suo ritorno lo ha relegato di nuovo nella miseria di sempre. Tom è devastato da quanto gli è successo, come se la contiguità con la morte avesse ucciso la sua voglia di vivere ma anche la paura di morire (oggi si direbbe che sia afflitto da una grave forma di stress post-traumatico).

Tom Shelby e Oswald Mosley, un’impossibile alleanza.

Si distingue dai suoi fratelli: Joe, il minore, è troppo giovane e aspetta qualcuno che lo instradi, mentre il maggiore, Arthur, è solo una cieca belva sanguinaria che governa il gruppo con il terrore. La sorella Ada, che tanto muterà nel corso degli anni, è ancora una ragazza idealista e romantica.

Tom è un gelido calcolatore, che esercita la violenza in modo meno plateale, capace di ragionare oltre che di ammazzare, di tessere alleanze, di ordire trame, di corrompere e intimidire. Sulla famiglia domina la zia Polly (la mai abbastanza compianta Helen McCrory), donna forgiata da un’esistenza drammatica, che commetterà solo l’errore di ricercare un figlio che aveva dovuto abbandonare e che si rivelerà una vera serpe in seno. Nello sviluppo degli eventi l’escalation di violenza sarà inevitabile e il prezzo di tali nerissime azioni sarà far subire a Tom un lento percorso d’involuzione psicologica che minerà anche il suo fisico.

Il Male da combattere ad armi pari in ogni stagione è stato diverso. Nella prima s’incarnava nella figura di uno spietato ispettore di Polizia, un perfido manipolatore, longa manu della politica (leggasi Winston Churchill) per sporchi interessi. Tom finirà sfruttato come sicario dal Governo, che in cambio chiuderà tutti e due gli occhi sulle sue attività illegali.

Costantemente ci sarà da combattere contro traditori, infiltrati, boss di altre gang che vogliono il loro posto al sole. Fra questi arriveranno i mafiosi italiani della famiglia Sabini, quando Tom cerca di espandersi a Londra e poi, nella quarta stagione, ci sarà lo scontro con Luca Ciangretta. Uno degli avversari più inquietanti si rivelerà il predicatore ebreo pazzo (Tom Hardy), personaggio che riserverà parecchie sorprese.

Il nucleo storico dei Peaky Blinders.

Tom dovrà poi affrontare Hughes, un religioso davvero assai lontano dai precetti della chiesa, che si rivela un emissario della Lega Economica, che ostacola l’alleanza fra Shelby e i gruppi russi, arrivando a mettere in crisi i suoi buoni rapporti con il Governo, che si rivolta contro lui e la sua famiglia. Una volta risolti questi problemi affronta la crisi di Wall Street, che provoca la perdita dei suoi investimenti negli USA basati sul contrabbando di alcol, proveniente dalle sue distillerie clandestine di gin.

Intanto Tom ha iniziato a giocare con la politica, con le alleanze fra irlandesi dell’Ira e Feniani (quelli favorevoli a un accordo con il Governo); si avvicina anche al Partito comunista, che però sarà disposto a tradire (lui che costruisce ospedali e case per i poveri) in cambio di una candidatura a parlamentare. Che arriverà nel 1927, eletto al governo come deputato per Birmingham. Richiama su di sé l’attenzione mai gradita dei membri dell’IRA, organizzazione politico/terrorista ferocissima. E poi entra in stretto contatto stretto con gente quasi più pericolosa di lui: gli aristocratici che fanno i politici di mestiere, altezzosi, arroganti, classisti e corrotti, che lo guardano con malcelato disprezzo ma pensano di lucrare su di lui.

In special modo s’avvicina a Oswald Mosley (un adeguatamente odioso Sam Claflin), leader del nascente partito fascista inglese (personaggio realmente esistito) e s’illude di poterlo manovrare. Intanto intuisce la potenzialità del traffico di oppio e inizia a esportarlo negli USA. Ma è dagli USA che arriverà il pericolo più grande, il figlio di Polly che privo ormai del controllo della madre si lascia influenzare dall’ambiziosa e corrotta moglie (Anya Taylor-Joy).

Nemmeno l’amore è facile per Tom: il primo matrimonio termina tragicamente, il secondo, con una donna ben addentro ai suoi affari che lo ha sempre amato da lontano, non darà la felicità attesa, nemmeno con i figli, legittimi e non. La quinta stagione si chiude con Tommy ormai in preda a crisi depressive, sempre circondato da fatti di sangue di barbarica crudeltà, afflitto dalle visioni della prima amatissima moglie, che vagheggia il suicidio.

Il figlio di Polly e la sua ambiziosa mogliettina.

La sesta e ultima stagione sembra una campana che costantemente suona a morto, lenta e funerea, com’è ormai Tom, circondato da troppi fantasmi, oppresso da troppi ricordi, sovrastato da un senso di fine ineluttabile fra sciagure personali, malattie e superstizioni. Eppure, dice “nessuno mi vedrà strisciare”.

In fondo Tom è stato sempre solo, isolato, diverso, spietato per necessità, frainteso per la sua incapacità di spiegarsi. Ha comprato la sua facciata rispettabile dietro cui nascondere le troppe nefandezze commesse, ha compiuto un estenuante percorso dai vicoli fatiscenti agli splendenti corridoi del potere.

Lo ha sfiancato anche proteggere una famiglia che gli ha provocato sempre nuovi problemi (come ci hanno insegnato tante serie tv su famiglie criminali, pensiamo a Sopranos, Breaking Bad, Sons of Anarchy, Animal Kingdom, Bloodline, Ozark e, su tutti, i film del Padrino). Lui voleva proteggerla ed è stato visto come una letale mano sulla spalla: “la famiglia a volte è riparo dalla tempesta, a volte è la tempesta stessa”.

Molti ottimi attori sono entrati e usciti nel corso delle stagioni: Sam Neill, Tom Hardy, Paddy Considine, Aidan Gillen, Adrien Brody e Stephen Graham. Sempre splendida la fotografia. Il cast stabile della serie è stato uno dei soliti miracoli, perfetto dai personaggi principali a tutti i comprimari, e anche l’ultima delle facce è stata scelta con un’attenzione maniacale. Oltre al bravissimo Cillian Murphy, ovviamente, che con questa serie ha avuto un ruolo da protagonista dopo essere stato in tanti film notissimi, alcuni dei quali di Christopher Nolan.

Un terzetto di shakespeariana composizione.

Una rivelazione è stato Paul Anderson con il suo Arthur, il fratello Joe era Joe Cole visto poi in Gangs of London e The Ipcress File. Helen McCrory ha dato alla zia Polly la sua consueta bravura. Sempre curatissimi scenografia e costumi, a ricreare alla perfezione un periodo storico con precisi riferimenti a fatti storici reali. Resterà nella memoria l’uso strepitoso della canzone Red Right Hand di Nick Cave sui titoli di testa delle prime stagioni.

Forse Peaky Blinders lascerà meno orfani di altre serie tv, non come successo in altri casi, forse perché ha descritto con agghiacciante realismo gli orrori di una vita costruita su cumuli di cadaveri senza mai far sembrare attrattivi i personaggi.

Perché lo stesso protagonista Tommy è riuscito ad appassionare nella sua shakespeariana tragedia di un uomo che ha voluto farsi re di un regno di morte, ma non ha mai fatto scattare quell’empatia che spesso viene stigmatizzata quando vengono raccontate le storie di grandi delinquenti, che nostro malgrado ci fa palpitare e tifare per loro, anche quando sappiamo benissimo di quali nefandezze siano capaci.

Il finale della stagione, della serie, restituisce però al personaggio quell’emotività che spesso era rimasta murata dietro i vitrei occhi azzurri di Cillian Murphy, e si chiude con un colpo di scena così sorprendente da farci dimenticare una certa staticità, una rarefazione di tensione e di azione rispetto alle stagioni precedenti. Cosa può fermare un uomo che ha vissuto come fosse già morto? Solo la morte? Ma “tanto tutti, ogni giorno stiamo morendo”.