Per quanto si può continuare a spremere i brand?
Tra sequel e remake, la voglia di evolvere le formule è sempre più rara. Alcune saghe scompariranno?
Tanto tempo fa, in una galassia lontana lontana, autori e registi premio Oscar non provavano alcun timore nel liberare le proprie opere e i personaggi nel mondo, lasciando che spiccassero il volo senza sentire l'esigenza di riportarli costantemente con i piedi per terra. Le parole di George Lucas non sono in calce all'articolo per caso: dopo Il Ritorno dello Jedi, Star Wars si prese una pausa lunga trent'anni, e il medesimo destino toccò ad altre produzioni campioni d'incassi, ad esempio il Ritorno al Futuro di Spielberg-Zemeckis, così come – ovviamente – a diverse saghe leggendarie emerse dalla letteratura, dal fumetto e dalla televisione.
Con il passare degli anni quello della “saga conclusa” ha iniziato a divenire un fenomeno sempre più raro da incontrare, e non è neanche necessario mettersi a indagare il perché e il percome si sia arrivati fino alla situazione attuale. Globalizzazione, esplosione dei mercati dell'intrattenimento, soprattutto il netto cambiamento nelle modalità di fruizione, hanno alimentato una nuova economia di consumo che pretende e fagocita incessantemente nuovi prodotti. Il mondo dei videogiochi, quello del cinema, quello dell'animazione, vivono oggi un'era di iper-consumismo che ha completamente stravolto le logiche di produzione, di monetizzazione e persino il modo in cui l'opera viene presentata e recepita.
Non è un segreto che l'innovazione creativa abbia ceduto il passo alla speculazione creativa, dipingendo uno scenario nel quale il prodotto di successo diventa il perno nodale su cui costruire anni di lavoro futuro. Chi è il folle che oggi abbandonerebbe un marchio che ha raggiunto il successo su scala globale? In un mercato come quello dei videogiochi, caratterizzato da costi di produzione altissimi e un ritorno sugli investimenti tanto incerto quanto temporalmente lontano, le società che possono permettersi di assumere tali rischi si possono contare sulle dita di una mano.
Analizziamo per un istante le line-up dei principali platform owner e produttori di titoli first party dell'industria contemporanea, ovvero Nintendo, Sony e Microsoft. Quest'anno la Grande N, in un periodo pur ricco e qualitativamente strepitoso, ha puntato su Mario Strikers, Xenoblade Chronicles 3, Bayonetta 3, Splatoon 3, sul brand di Kirby, su quello di Fire Emblem, ha chiuso il 2021 con il ritorno di Samus Aran in Metroid, con un remake dedicato a Pokémon, e si affaccia sul 2023 forte del nuovo Metroid Prime e del sequel di Breath of the Wild.
Sony ha accarezzato la nuova generazione di console con il ritorno di Demon's Souls, con un nuovo Spider-Man, con Gran Turismo, ha recentemente svelato la data di uscita di God of War: Ragnarok, ha aggredito il 2022 con Horizon: Forbidden West, chiuderà l'anno con il remake di The Last of Us. Microsoft ha in cantiere un nuovo State of Decay, il ritorno di Fable, quello di Perfect Dark, punta sui nuovi capitoli della serie Forza, ha conosciuto il ritorno di Master Chief in Halo: Infinite, la strategia di Age of Empires IV, la simulazione di Flight Simulator.
Aprendo e chiudendo una piccola parentesi, è evidente che il medesimo quadro abbia da tempo preso forma nei confini dei cinema, delle piattaforme di streaming, anche nelle librerie. Le nuove stagioni sono molte di più rispetto alle nuove serie, le nuove serie reinterpretano brand affermati, i brand affermati si sviluppano lungo universi trans-mediali che monopolizzano le sale. C'è solo una costante: proseguendo nel cammino la qualità si abbassa inesorabilmente. O meglio, magari la qualità si assesta sempre sullo stesso livello, ed è la percezione del pubblico verso il prodotto che tende invece a deteriorarsi.
Oggi il mare della produzione videoludica è punteggiato di brand che sopravvivono da decenni, facendo affidamento sui fasti del passato e su formule rodate, lottando con il coltello tra i denti per rimanere rilevanti e piegandosi alle violente correnti del mercato. Arrivati a questo punto, la soluzione sembra una soltanto: bisogna lasciare che le saghe si spengano, rinchiuse in una bolla capace di mantenerle in eterno allo stato dell'arte, cedendo il passo all'originalità e al pieno raggiungimento della libertà creativa.
Ma questo non è possibile. Non è possibile perché le radici stesse del mercato e delle imprese che vi operano sono ormai saldamente ancorate al sistema, e staccare la spina significherebbe far crollare l'intero castello. Filosoficamente si tratta della scelta migliore: congelare nel tempo tutta l'energia degli autori e degli sviluppatori nei confini di opere che non invecchino mai. Ma nella pratica? Quante imprese finirebbero a gambe all'aria per un ideale? Se l'ipotesi è economicamente assurda, allora l'unica alternativa risiede nell'evoluzione.
Nel 2017 Ubisoft ci ha invitato a Parigi per giocare in anteprima ad Assassin's Creed Origins, undici anni dopo l'esordio di quello che fu il primo episodio in una saga più che mai prolifica, prima acclamata, poi discussa e infine tramontata, eppure incessantemente portata avanti. Nuovo approccio alla narrativa, nuove meccaniche di gioco, nuova scala dell'esperienza: tre banali modifiche strutturali che riuscirono a spazzar via le diatribe passato, inaugurando di fatto una seconda età dell'oro.
Sono passati cinque anni da quell'autunno del 2017 e abbiamo scoperto che il ciclo si è semplicemente riavviato, facendo comparire alle spalle dell'enorme successo di Assassin's Creed Valhalla lo spettro di un nuovo deterioramento della formula che porterà inevitabilmente alla necessità di una nuova ristrutturazione completa. Il meccanismo di rinnovamento, di conseguenza, non dev'essere inteso come un avvenimento una-tantum, ma come una caratteristica pervasiva della “saga videoludica”.
Se la serie di Assassin's Creed è stata in grado di rimbalzare fino a conoscere un nuovo ciclo di successi, lo stesso non si può dire di diversi brand che rimangono tuttora vicinissimi al rischio d'estinzione. Grandi esempi di questa condizione sono Far Cry, Gears of War, lo stesso Halo, e un giorno probabilmente il medesimo destino toccherà anche a giganti del settore come Fallout o persino The Witcher. In linea generale, si tratta di opere che non hanno voluto o non hanno saputo evolversi, e tendono a raccogliere discreti risultati in ragione delle lettere che campeggiano sulle copertine.
Un caso virtuoso è senza ombra di dubbio quello di God of War del 2018 che, ad anni di distanza dal tramonto della serie originale, ne ha ripreso i contorni seguendo una formula tanto rara quanto efficace: “same brand – different setting – different formula”, ovvero lo stesso brand riproposto in un'ambientazione inedita e sotteso a regole differenti. Ora, la trilogia sequel di God of War potrebbe funzionare proprio perché concepita in quanto trilogia – figlia di un'idea di natura autoriale – ma ovviamente è presto per delinearne in confini, e non ci sentiamo di escludere completamente l'ipotesi di un nuovo Ascension pronto a spezzarne la caducità.
“O muori da eroe, o vivi abbastanza a lungo da diventare il cattivo”, diceva l'Harvey Dent secondo Nolan nel Cavaliere Oscuro. Ed è ironico che ci troviamo a recuperare tale citazione proprio in questa analisi, dal momento che abbiamo aperto la discussione proprio menzionando Star Wars come una saga che “si accettava” nella sua conclusione, mentre oggi le sta toccando tutt'altro destino in seguito al passaggio di mano.
L'unica vera mosca bianca, la compagnia che sembra riuscita a trovare una formula segreta per sfuggire allo scorrere del tempo e preservare la bolla qualitativa attorno alle sue serie, rimane Nintendo. L'archetipo “same brand – different setting – different formula” è infatti un tratto tipico delle serie antologiche inaugurate dalla casa giapponese, e su tutte brilla l'esempio di The Legend of Zelda, che dopo 36 anni continua ad incarnare ripetutamente quel concetto di costante rinnovamento – che potremmo assimilare al “Kaizen” - cui altre saghe si trovano costrette a ricorrere come ultima risorsa, proprio come nel caso di Assassin's Creed: Origins.
Nintendo ha riservato il “trattamento Origins” a tutti i suoi marchi di maggiore successo fin dall'alba dei tempi, dalla già citata saga di Link fino all'universo di Mario, con quest'ultimo che già nel passaggio di testimone tra “64” e “Sunshine” scosse le fondamenta della formula fino ad arrivare alla rivoluzione di Galaxy. Se questo genere di approccio produttivo funzionava vent'anni fa è inevitabile che oggi, in seguito all'evoluzione del mercato, sia uno dei pochi a tenere banco.
La velocità a cui viaggiano le informazioni, la mole di trailer, il modello del gioco come servizio atto a perdurare, la forte presenza di contenuti aggiuntivi, l'esplosione delle formule remake e remastered, hanno cementificato nella mente degli appassionati determinate formule, ed è inevitabile che questi finiscano per storcere il naso quando gli viene servito lo stesso piatto ancora e ancora, perché andando avanti sembra sempre più vicina l'ultima volta che lo si ha assaggiato.
In conclusione, dinanzi al problema della sempre più frequente spremitura del frutto fino al completo esaurimento, esistono due sentieri percorribili. Il primo risiede nell'accettazione del tramonto del brand, dell'idea del vecchio che scompare per lasciare spazio al nuovo, che è ovviamente allettante, ma pone un problema economico che nel mercato contemporaneo pochissimi possono permettersi di affrontare.
In secondo luogo esiste l'evoluzione, che d'altra parte per risultare efficace nel lungo periodo dev'essere intesa come un concetto molto diverso dal semplice aggiornamento una tantum. Le grandi saghe ultra-trentennali e quelle antologiche hanno dimostrato con i fatti che si tratta di un'evoluzione pervasiva, presente a tutti gli stadi della produzione, radicata fin dal principio nelle fondamenta di ogni nuovo progetto anche quando il precedente è ancora in corso.
Probabilmente i grandi produttori del mercato che non sceglieranno di imboccare una di queste strade spingeranno alcuni brand storici sull'orlo dell'estinzione. Ma cosa faranno a quel punto? Si limiteranno a riavviare un ciclo che li condurrà inevitabilmente allo stesso punto, oppure avranno il coraggio di guardare avanti? L'unico modo per scoprirlo è attendere fino all'ingresso nel vivo della nona generazione di console, quando gli ultimi strascichi della scorsa avranno fatto il loro corso. Nel frattempo, giriamo a voi un'altra domanda: quali sono le saghe che più d'ogni altra hanno l'estremo bisogno di un forte rinnovamento?