Perché così tanti giocatori non finiscono i videogiochi? - editoriale
Le statistiche parlano chiaro: almeno un giocatore su due non arriva fino in fondo.
Di tutti i trend emersi nel corso degli ultimi anni di storia videoludica ce n'è uno in particolare che, al primo sguardo, sembra quasi inspiegabile. Un trend che ha iniziato a emergere nei primi dei 2000, in concomitanza di due avvenimenti fondamentali: la prima integrazione capillare di servizi online sulle console, avvenuta tramite Xbox Live, e l'introduzione dei sistemi basati su trofei e obiettivi, che sostanzialmente hanno reso pubblici dati in precedenza appannaggio delle sole software house.
Nel mondo in cui ogni mossa dell'utenza viene tracciata, è venuto fuori che la maggior parte degli appassionati non portano a termine i videogiochi. E non importa che questi siano considerati capolavori dalle community, che siano kolossal immortali, o che siano piccole gemme destinate a minuscole nicchie: le percentuali di completamento si mantengono nella maggior parte dei casi ben al di sotto della soglia critica del 50%.
Meno di un giocatore su due arriva a vedere i titoli di coda di un'avventura virtuale in single player. È chiaramente una statistica particolare, per certi versi anche preoccupante, che è stata posta per la prima volta sotto i riflettori durante la GDC 2014 da Tom Abernathy di Riot Games e Richard Rouse di Microsoft, un coppia che facendo affidamento unicamente sulle metriche di Steam ha notato come, nel caso di titoli stra-venduti e pluricandidati ai massimi riconoscimenti, un utente su due abbandonasse l'esperienza ancora in corso.
La questione si è rifatta viva attraverso le dichiarazioni di Shawn Layden, ex boss di Sony Interactive Entertainment Studios, che in tempi recenti ha più volte sottolineato la necessità di modificare l'approccio alle produzioni AAA. Software che secondo lui, oltre ad essere eccessivamente costosi e asfissianti per gli studi di sviluppo, sarebbero anche divenuti troppo lunghi. E se un utente già fatica a portare a termine i videogiochi contemporanei, non avrebbe alcun senso tentare di aumentare ulteriormente i contenuti e la longevità delle opere spremendo gli artisti fino all'osso.
Prima di tentare di rispondere alla domanda in calce, vale la pena soffermarsi sulle statistiche mediate fra GOG, Steam, gli obiettivi Xbox e i Trofei PlayStation per farsi un'idea del comportamento dei videogiocatori. Quali sono, dunque, i titoli più completati? E quelli più abbandonati, invece?
Le metriche portate sul palco della GDC erano impietose: Skyrim terminato dal 32% dei giocatori, Mass Effect 3 dal 42%, Portal dal 47%, Bioshock Infinite da poco più del 50%. E con lo scorrere degli anni, la faccenda non è cambiata, anzi. Dark Souls 3, per quanto difficile, è stato completato dal 18% degli acquirenti, e solamente il 65% è riuscito a sconfiggere il primo boss Gundyr. Ciò significa che una persona su tre l'ha accantonato senza nemmeno terminare il tutorial.
Certamente il caso di Dark Souls è piuttosto particolare, ma se andiamo a pescare fra i grandi titoli consumer la storia rimane sempre la stessa. In Red Dead Redemption 2 solo un giocatore su cinque è arrivato fino all'epilogo narrativo. Anche in titoli più accessibili, come Assassin's Creed Origins oppure Shadow of the Tomb Raider, le percentuali non riescono a scavalcare il muro del 43%/55%. Insomma, sembra destino che oltre un giocatore su due abbandoni l'esperienza in corso a prescindere dal titolo in esame. Quali sono, invece, i videogiochi più completati?
Il trend più interessante riguarda visual novel e avventure interattive, che sono di gran lunga le esperienze con il maggior tasso di completamento in assoluto. Se Life is Strange è l'unico marchio esistente prossimo al 90%, le serie di Telltale oscillano fra il 62% e il 75%, e questa è una caratteristica comune a diverse opere simili, come The Wolf Among Us o lo splendido Steins;Gate.
A seguire troviamo una serie di produzioni AA accomunate dal grado di ricerca necessario prima di imbattercisi, ulteriore testimonianza della validità di alcune tesi avanzate da Shawn Layden: titoli come A Plague's Tale di Asobo e Hellblade di Ninja Theory siedono infatti a un impressionante tasso di completamento prossimo al 60%, e sono ovviamente seguite da alcuni esponenti del sottobosco indie.
Viene infatti naturale pensare che più un titolo sia destinato a una nicchia, più elevata sarà la volontà degli acquirenti di portarlo a termine; è il caso di prodotti come The Messenger, 12 Sentinels Aegis Rim, anche il blasonato Firewatch, che viaggiano tranquillamente fra il 57% e il 70%. E più quella nicchia si fa ristretta, vedi Déraciné di From Software al 75%, più le percentuali si alzano. È evidente, d'altra parte, che ciò presuppone che molte meno persone si siano avvicinate ai sopracitati videogiochi rispetto ai big dell'industria.
Ci sono infine un paio di interessanti dati che vale la pena menzionare prima di proseguire. Anzitutto, abbiamo riscontrato una sorta di inversione di tendenza che ha caratterizzato alcune release recenti: Ghost of Tsushima, Star Wars: Jedi Fallen Order, e i titoli di Marvel's Spider Man, si sono dimostrati straordinarie mosche bianche, essendo stati portati a termine da percentuali di giocatori mediamente superiori al 54%. Che siano portatori di una formula vincente capace di tenere più persone possibile incollate fino ai titoli di coda?
A ben vedere si tratta di produzioni piuttosto simili che condividono l'anima del racconto leggero, un gameplay molto accessibile, e una struttura aperta piuttosto semplificata. Certo, bisogna anche tenere in considerazione che due fra questi sono tie-in legati ai brand di maggior successo della storia contemporanea, ma non si può neppure passar sopra alle evidenti somiglianze nel tessuto strutturale.
L'ultimo dato è anche uno dei più eloquenti: una volta le cose andavano in modo ben diverso. I primi capitoli nella serie di Assassin's Creed, ad esempio, avevano tassi di completamento astronomici se paragonati agli ultimi usciti. E il fatto che il genere del JRPG si sia dimostrato immune al calo preservando sempre e comunque percentuali elevate, come dimostrato dal 60% di giocatori che hanno terminato i vasti Persona 5 e Final Fantasy VII Remake, suggerisce che il tasso di abbandono sia una caratteristica generazionale, anche perché le medesime metriche investono brand storici di Nintendo come quello di Zelda.
Il che rappresenterebbe anche la risposta più ovvia al quesito iniziale: i tempi sono cambiati e con loro sono cambiati videogiocatori e soprattutto videogiochi, tanto nel modo in cui vengono realizzati quanto nei metodi di fruizione. Se aggiungiamo al calderone il fatto che capita sempre più spesso di intascare giochi gratuitamente, come parte di servizi o in fortissimo sconto, è inevitabile che numerose release finiscano nelle mani di un pubblico che non ha intenzione né tempo di completarli.
La soluzione dell'equazione, tuttavia, non è così semplice. Il primo responsabile di questa tendenza, secondo gli esperti, sarebbe l'avvento del gaming online, che ha trasformato la fruizione media del videogioco in un'esperienza social. Per molti appassionati "videogiocare" oggi significa condividere il tempo libero per chiacchierare, collaborare e competere con gli amici, costruendo una sorta di bolla positiva dalla quale vien difficile straniarsi per dedicare ore a esperienze narrative individuali.
Questo fenomeno, di contro, sembra aver alzato il sipario su una sorta di "ansia da nuovo videogioco", laddove numerose avventure sconosciute, per quanto appaiono affascinanti, finiscono per essere abbandonate in favore del ritorno in una zona di comfort, sia essa rappresentata dal mondo del gaming online, sia essa un videogioco a cui si è particolarmente legati che si sceglie di visitare nuovamente invece di confrontarsi con qualcosa di nuovo.
Fra le ragioni più concrete spicca senza ombra di dubbio l'enorme mole di release che costellano l'annata media del settore, aumentando a dismisura il backlog dei videogiocatori e, soprattutto, alimentando la cultura dell'inseguimento del titolo rovente del momento. Ciò significa, ad esempio, che c'è una tendenza ad acquistare e iniziare nuovi videogiochi che improvvisamente vengono rimpiazzati da un'opera più recente finita sulla bocca di tutti. È il caso, ad esempio, del calo di vendite che ha investito Nioh 2, rilasciato il 12 marzo 2020, al momento dell'uscita di Final Fantasy VII Remake il successivo 10 aprile.
E ciò ha ovviamente a che vedere con la teoria del "videogiocatore invecchiato", la quale suggerisce che intere generazioni di appassionati non abbiano più a disposizione il tempo che vorrebbero dedicare al proprio hobby pur continuando imperterriti ad acquistare. La situazione che si configura sarebbe dunque la seguente: da una parte c'è una massa di giocatori maturi che non possono più dedicare ore ai videogiochi in single-player, mentre dall'altra c'è una nuova generazione di fan che disporrebbero sì del tempo libero per goderseli, ma preferiscono spenderlo su altre sponde, come ad esempio nei giochi come servizi.
Allo stesso modo, l'idea dell'investimento è stata a dir poco stravolta nel corso degli ultimi anni, spersonalizzando l'operazione dell'acquisto e liberando gran parte dell'utenza da qualsiasi sorta di rimorso del compratore. Oggi è più che mai semplice balzare fra un titolo e l'altro, testando continuamente nuovi prodotti in cerca di un porto sicuro. C'è da dire, d'altro canto, che questa situazione non costituisce assolutamente un male, perché quella di sentirsi vincolati al dover completare un videogioco non è una soluzione auspicabile.
È evidente che quello dei tassi di completamento sia un dilemma di natura filosofica: finché i videogiochi vengono acquistati e l'industria continua a battere cassa non si verifica alcuna crepa di natura strutturale. Di contro, è inevitabile che faccia strano vedere opere premiate dal pubblico e dalla critica limitarsi a rimanere splendidi viaggi incompiuti per un videogiocatore su cinque, ed è naturale che chi questi prodotti li confeziona si interroghi sulle possibili soluzioni.
Daniel Pennac, quando ha messo su carta i dieci diritti imprescindibili del lettore, non ha mancato di considerare "il diritto di non leggere", così come "il diritto di spizzicare" e soprattutto "il diritto di non finire il libro".
Il medesimo manifesto si potrebbe tranquillamente applicare al medium del videogioco, uno strumento libero che chiunque dovrebbe utilizzare come meglio crede. A volte, tuttavia, vale la pena chiedersi perché facciamo o non facciamo qualche cosa.
E a questo proposito, perché non finiamo i videogiochi?