Perché i videogiochi non possono, né devono essere apolitici - editoriale
Politico non è sinonimo di corrotto, men che meno di malvagio
Era già successo con Square Enix e Deus Ex: Mankind Divided, come anche con il Detroit Become Human di David Cage e Quantic Dream.
Oggi è toccato a Tom Clancy's: The Division 2, recentemente pubblicato da Ubisoft e che, come intuibile dal nome, è ispirato alle opere dell'autore Tom Clancy.
Nel giugno 2018, il Creative Director Terry Spier è stato intervistato da Polygon, ma alcune sue risposte hanno incuriosito non poco i fan per l'elusività in merito a certe tematiche.
Secondo Spier, The Division 2 e i suoi autori non hanno intenzione di prendere alcuna posizione politica ("we're definitely not making any political statements"), trattandosi di un gioco ambientato in una realtà fittizia ("This is still a work of fiction, right?") e dunque il focus del gioco non è il combattimento di una guerra civile tra le strade di Washington DC con una base operativa all'interno della stessa Casa Bianca, ma l'esplorazione della città ("No. It's not a political statement. No, we are absolutely here to explore a new city").
Una seconda intervista fu concessa al The Guardian una decina di giorni dopo, stavolta dal CEO di Ubisoft in persona. Yves Guillemot scese in campo per rispondere alle critiche emerse dal precedente Q&A, secondo cui la compagnia stava cercando di evitare le implicazioni politiche dei propri giochi.
Guillemot ha dichiarato che c'è una sostanziale differenza tra il videogioco e qualunque altro medium, perché nel videogioco il giocatore è anche l'attore ("because the player is the actor"), è colui che prenderà le decisioni, e il lavoro degli sviluppatori è quello di assicurarsi che si possa sentire libero di imboccare una qualunque direzione ("the player is the person who is going to take decisions within the game, and our job is to make sure you feel free to go one way or the other ") con lo scopo di calare il giocatore in situazioni all'interno della quali egli potrà decidere, comprendere e sperimentare ("we want to put you in situations that will make you decide, and understand, and try things").
Prima di tutto, bisogna notare come la seconda intervista vada in aperto contrasto con quanto detto nella prima, visto che già la sola intenzione di voler permettere al giocatore di prendere scelte di natura etico-politica implica che il gioco contenga per forza di cose elementi etici e politici, e questo era stato negato con forza da Spier.
In secondo luogo, lungi da noi fare un processo all'intenzione a Ubisoft o ai suoi dipendenti e piani alti, ma l'idea di concedere assoluta libertà a un giocatore risulta già limitata all'interno di prodotti di natura puramente simulativa, figuriamoci nel caso in cui ci si trovi davanti un'opera con una componente narrativa, persino più presente che nel predecessore Tom Clancy's The Division. Un livello tale di libertà è ancora oggi irraggiungibile anche nel caso di lavori esclusivamente narrativi, men che meno in quelli come The Division 2, in cui il gameplay (e stiamo parlando di uno sparatutto) riveste una componente fondamentale del divertimento e dello stesso concept.
Come se non bastasse, non vi è dubbio che "il giocatore è anche l'attore", ma gli sviluppatori rimangono i registi: in The Division 2, così come in ogni gioco con una trama, "qualcuno" ha scelto i dialoghi, qualcuno ha scelto setting, inquadrature, personaggi, cosa mostrare e come mostrarlo; non si tratta di un simulatore, men che meno della vita vera. Per questo motivo il giocatore ha sì piena facoltà di "decidere, comprendere e sperimentare", ma questo processo cognitivo avviene nel videogioco come in qualunque altro medium e in questo specifico caso l'interattività del contenitore non ne cambia il contenuto.
Ad esempio, a una persona può essere concesso di bere una bibita gassata con calma, o di agitare il recipiente e sporcare se stesso e chi gli sta accanto, o semplicemente di non bere la bibita: questo non cambierà il liquido dentro il recipiente, o come quel recipiente sia stato posto sul tavolo prima che venisse raccolto.
La libertà decisionale e di movimento è comunque vincolata a dei binari dettati da script e programmazione del software, condizioni "imposte dall'alto" e che per forza di cose danno una chiave di lettura di quello che accade: in The Division 2 il protagonista fa parte di uno schieramento, "i cattivi" di un altro. L'obiettivo del giocatore è chiaro e definito e non è possibile, ad esempio, tradire i propri compagni e diventare un Black Tusk, o decidere di non prendere posizione e disertare.
Durante un'intervista a Eurogamer.net, il COO di Ubisoft Massive Alf Condelius ha dichiarato che "Ubisoft vuole rimanere lontana dalla realtà politica, perchè fa male agli affari" ("we don't want to take a stance in current politics. It's also bad for business, unfortunately, if you want the honest truth..."): pur con alcune eccezioni, è sempre più facile notare come gli sviluppatori AAA abbiano "paura" di apparire schierati, questo perché in un mondo digitalizzato e globalizzato, dove lo scandalo e l'evento virale sono sempre dietro l'angolo e dove basta il tweet sbagliato per scatenare il finimondo mediatico, il videogioco "politico" può diventare l'ennesimo capro espiatorio e finire strumentalizzato in battaglie che non lo riguardano, con il risultato d'esser messo in cattiva luce tanto agli occhi del pubblico pagante che di quello degli investitori finanzianti.
Il videogioco nasce per divertire ed è giusto che punti a far "felici tutti", o comunque il maggior numero possibile di persone. Quello che non è giusto, però, è fare negazionismo e rifiutarsi di vedere la realtà: il videogioco è un medium che nel corso degli ultimi decenni è evoluto tantissimo e con esso sono evoluti i temi da lui trattati: nell'ormai lontano '87 Metal Gear mostrava la guerra nucleare, armi di distruzione di massa, spionaggio e tradimenti e ha continuato a farlo fino al 2015, mostrando - quasi - senza pudore le conseguenze dell'appropriazione linguistica e culturale, i bambini soldato, le armi biologiche, la perdita del proprio io e della propria umanità nella spirale di guerra, violenza, morte e vendetta.
Volendo volare molto più bassi, l'intera saga di Ratchet & Clank mostra l'ascesa di un umile meccanico a salvatore di pianeti e galassie, in opposizione a regimi capitalistici totalitari e con l'aiuto di un piccolo androide ribellatosi all'omologazione spersonalizzante di una catena di montaggio.
Persino il Mario di casa Nintendo è un proletario che antepone valori e sentimenti alla politica e salva più volte una principessa da un "matrimonio combinato" con il governante di un regno lontano e belligerante.
Di esempi più o meno tirati ne possiamo trovare a centinaia e questo perché qualunque storia, anche la più "infantile", ha un messaggio di fondo: quel messaggio è frutto del lavoro di persone, che a loro volta hanno delle opinioni, che volontariamente o meno finiscono trasposte all'interno della loro opera. È risaputo che spesso gli artisti inseriscono nei propri lavori dei messaggi di cui non erano nemmeno coscienti ed è proprio il soggetto terzo, il critico o il pubblico, a evidenziarli.
Come se non bastasse, l'idea di un gioco in cui "il nostro scopo è esplorare la città", tratto dalle opere di Tom Clancy, suona più come un'offesa all'autore e al gioco stesso, piuttosto che un complimento: un gioco sulla guerra civile, la corruzione del governo e il terrorismo non può, né deve essere apolitico, a meno di voler risultare perfettamente inutile. Che si tratti del mondo reale o di un futuro fittizio poco cambia, fior fior di artisti di ogni media hanno veicolato i propri ideali attraverso racconti di fantastoria e fantascienza, senza che tali messaggi risultassero stemperati in alcun modo.
Senza considerare che anche la neutralità è, di fatto, una presa di posizione politica, ciò che manca in questo caso è il coraggio d'affrontare i rischi che una pubblicazione da sempre comporta: viviamo un periodo storico in cui l'indignazione è più diffusa dei mali di stagione e, visto anche l'ottimo successo del gioco, il rischio che The Division 2 diventi la scusa per giustificare l'ennesima strage o attentato non è così fuori dal mondo.
Con Far Cry 5 stesso che risulta un titolo estremamente "pesante" nei riguardi del passato della storia americana, è perfettamente comprensibile cosa abbia spinto Ubisoft a negare qualunque tipo di contenuto politico all'interno di The Division 2 e degli altri suoi titoli: evitare in partenza qualsivoglia campagna di "sensibilizzazione" contro la violenza nei videogiochi e il degrado morale dei giovani d'oggi... senza considerare tutte le possibili accuse di strumentalizzazione del medium videoludico da parte di questo o quel partito politico, per piegare giovani e ignare menti a propagande subliminali.
Bisogna però capire che "politico" non è sinonimo di "corrotto", men che meno di "malvagio" e che un messaggio politico può anche essere positivo, d'arricchimento e maturazione per chi lo vive giocando.
Nel territorio europeo il gioco è stato classificato PEGI 18, in quello americano ha un ESRB pari ad M: proprio perché indirizzato a un pubblico adulto e ambientato in un futuro fittizio, sta alla maturità e al discernimento di chi gioca la comprensione che quanto mostrato a schermo non è, né deve essere reale, ma che attraverso la finzione viene veicolato un messaggio di solidarietà (verso i camerati e i civili), di coraggio e patriottismo (la difesa della città e la scelta della White House come base operativa) e di ricerca dell'ordine e della stabilità, anche a costo di tragici conflitti armati: questo accade nei videogiochi come in ogni altro media, dai film alle canzoni, dai romanzi ai cartelloni pubblicitari.
The Division 2 e le migliaia di titoli che lo hanno preceduto non devono aver paura di ciò che sono, perché il videogioco è un medium maturo, in grado di offrire abbastanza punti di vista e abbastanza informazioni affinché si possa, alla fine, decidere cosa e in cosa credere. Dare un orientamento al proprio gioco non significa sbarrare ogni altra chiave di lettura, basti pensare a quante volte i film storici abbiano raccontato la seconda guerra mondiale dal punto di vista dei nazisti; il problema è presente più nelle intenzioni, che nel messaggio in sé, dato che Ubisoft (come molte altre software house) cerca in ogni maniera rimanere nelle grazie di tutti con dichiarazioni "politicamente corrette", che però a una seconda occhiata non convincono nessuno e danno solo fastidio.
L'azienda francese ha piena libertà di rifiutare d'esporsi, ma affermare in senso assoluto che "la politica fa male agli affari" è una generalizzazione talmente estrema che è impossibile dar loro ragione: basti pensare a Red Dead Redemption 2, titolo AAA a dir poco, che mette nei panni di un gruppo di fuorilegge che vede la legalizzazione degli Stati Uniti come qualcosa di abusivo e ingiusto... Per non parlare del setting più moderno (e decisamente più estremo) dei Grand Theft Auto e di come a distanza di oltre un lustro da GTA V la scena di tortura di Trevor e i suoi dialoghi a dir poco "politically incorrect" siano difficili da dimenticare.
Un gioco di guerra apolitico è come un comico che non fa ridere, inutile e un po' triste; un gioco che pone delle domande ma non conosce le risposte è un gioco vuoto, probabilmente anche noioso. Un gioco che punta a far contenti tutti, non soddisferà pienamente nessuno; un gioco che vuole essere oggettivo in senso assoluto punta alla perfezione matematica e divina, condannandosi a fallire miseramente e a essere ricordato più per i suoi limiti che per le sue eccellenze.