Perché The Last Of Us non avrebbe avuto bisogno di un sequel - editoriale
E perché lo giocheremo lo stesso.
Un po' di tempo prima che uscisse The Last Of Us, nel 2013, abbiamo ricevuto per posta un piccolo e morbido mattone da parte di Sony Computer Entertainment. Era circa delle dimensioni di un mazzo di carte e assomigliava ad un giocattolo antistress: su un lato aveva stampata la scritta "The Last Of Us" e sull'altro una faccina sorridente. Un mattone felice.
Il mattone rimane uno dei più strani materiali promozionali che sia mai stato inviato anche se, con il senno di poi, ci avrebbero potuto mandare simboli peggiori per rappresentare il serio e cupo racconto di sopravvivenza post-apocalittica di Naughty Dog. John Lanchester, parlando di videogiochi, ha notato che "la rispettabilità è una cosa terribile per ogni forma d'arte" e The Last Of Us arriva pericolosamente vicino a questo concetto, con il suo compositore premio Oscar, la sua mensola di BAFTA e i suoi zombi troppo sofisticati per essere chiamati così. Non si direbbe dalla sua faccia felice ma questo simpatico mattone si è ritrovato in mezzo ad un braccio di ferro per decretarne la rispettabilità, contemporaneamente un segno di quanto poco inclini siano il gioco e la sua ambientazione cupa alla celebrazione e alla banalizzazione, ma anche in realtà il simbolo perfetto della snella linearità di The Last of Us. Il gioco è freddo e duro, compatto e brutale.
The Last Of Us era una sorta di riassunto. È arrivato a giugno del 2013, meno di sei mesi prima del lancio di PS4, un giro d'onore di Naughty Dog per la vecchia generazione di console, dopo che lo studio aveva offerto tre Uncharted da lasciare senza fiato e senza mattoni. Qui però ci trovavamo di fronte ad un'altra cosa, perché non si trattava tanto di una cupa pausa dalle avventure da programmazione pomeridiana. The Last of Us prende l'insuperabile combattimento in terza persona di Nathan Drake e lo trasforma in quindici massacranti ore da intervallo in prigione, le stesse meccaniche di copertura trasformate in un ansimante, sudato calvario. È un gioco che si basa sull'impotenza e sulla paura, che rifiuta di risparmiarci i dettagli banali del rovistare e della sopravvivenza. È un titolo che ci fa aprire cassetti e armadi e ci fa fabbricare bende con alcolici e stracci. È un gioco sull'indispensabile utilità dei mattoni.
Lanciare un mattone sulla nuca di qualcuno e piantargli il coltello nel collo potrebbe non sembrare un bel modo per celebrare la fine di una generazione di console, ma proprio di questo si tratta: di una celebrazione. The Last Of Us è una trionfante rivisitazione del concetto di videogiochi, non perché prima non ci fossero titoli seri o in cui la violenza non fosse presa con serietà, ma tra i corpi disinvoltamente impilati di Uncharted e il numero di munizioni che ci fanno trattenere il fiato di The Last Of Us, Naughty Dog ha forzato la resa dei conti. Nathan Drake è un ragazzo divertente ed era come se con l'attuale ciclo di hardware, di cui avevano piena padronanza, lo studio avesse voluto dimostrare che il grande pubblico potesse essere entusiasmato dalla prospettiva di divertirsi il meno possibile. The Last of Us è un gioco di zombi suo malgrado, uno sparatutto con armi sempre scariche, che spesso sono la rovina di chi le impugna. Un titolo d'azione che provoca sollievo, più di qualunque altra emozione.
Il fatto non è tanto che The Last Of Us non intrattenga, ma che tragga il suo divertimento da caratteristiche insolite. Uno dei motivi principali che ci rendono felici giocando è, in fondo, la splendida, inconfessabile bellezza del mondo senza noi esseri umani. Anche se Naughty Dog ha per molto tempo citato come fonte d'ispirazione fondamentale l'episodio di Planet Earth della BBC che parlava del fungo Cordyceps e delle formiche della giungla, il gioco ha tratto molto di più dal programma del naturalista Attenborough. Le immagini ravvicinate della crescita smisurata dei funghi sui cadaveri degli insetti, che paiono come decorati da intricate strutture, danno la sensazione di qualcosa di proibito e affascinante, uno sguardo minuzioso ad un mondo distante da quello umano. Questo è un modello per l'America di The Last Of Us, un mondo che vuole liberarsi dalla nostra presenza, le nostre più gloriose strutture di cemento fatiscenti e coperte di verde: il caos della nostra civiltà. Sì, questo è un mondo segnato da una violenza incredibile e improvvisa, ma a volte anche da una tranquillità opprimente. L'ultimo stadio dell'infezione del clicker è un corpo umano fiorito e decorato da un fungo cresciuto nelle pareti e nei pavimenti di ciò che ci circonda. È un horror accattivante che continua ancora ad essere perfetto.
Per tutto questo, naturalmente, The Last Of Us ha a che fare con le persone. Quando parliamo della serietà e della rispettabilità del gioco, quello a cui davvero ci stiamo riferendo è il suo tentativo d'inserire delle emozioni realistiche all'interno di uno scenario già conosciuto, in cui i personaggi reagiscono con quella tipica spavalderia inumana. È la fine del mondo e loro si sentono come dei tiri al bersaglio. Joel ed Ellie, tuttavia, sono fragili e spaventati in tutti i modi in cui ci saremmo aspettati. The Last Of Us si rivela nella gelida e immediata caducità della vita umana che costringe le persone a prendere in considerazione le cose davvero importanti.
Si tratta, in altre parole, della versione videoludica di una storia d'amore. La prima nota che ho scritto quando ho iniziato questo pezzo è stata: "Non si può parlare a posteriori di TLOU senza far riferimento a Non è un paese per vecchi, City Of Thieves, Ico, il livello del carrarmato in Uncharted 2 o La strada", e sono arrivato a questo punto prima di fallire. Perché al centro di The Last Of Us ci sono tutte queste cose, le stesse cose di cui i direttori Neil Druckmann e Bruce Straley ci hanno parlato da quando è stato annunciato il gioco e che si scoprono essere di fondamentale importanza anche a posteriori. Dopo aver trasformato il loro amore per la relazione tra i protagonisti di Ico, quasi del tutto muta, nel legame inaspettatamente caldo tra Nathan Drake e il suo compagno sherpa Tenzin in Uncharted 2, Druckmann e Straley hanno cercato un ambiente più adatto ad una rielaborazione di questa dinamica di co-dipendenza. Hanno trovato il terreno fertile nelle storie di sopravvivenza e di persone che vivono vite povere e limitate. In sostanza quello che voglio dire è che è impossibile descrivere il modo di vivere di Ellie e Joel senza pensare all'adattamento dei fratelli Coen di Cormac McCarthy o citando McCarthy stesso.
"... per un attimo vide l'assoluta verità del mondo. Il moto gelido e spietato della terra morta senza testamento. L'oscurità implacabile. I cani del sole nella loro corsa cieca. Il vuoto nero e schiacciante dell'universo. E da qualche parte due animali braccati che tremavano come volpacchiotti nella tana. Un tempo e un mondo presi in prestito e occhi presi in prestito con cui piangerli".
La strada è un modello per The Last Of Us, come una litania lirica che narra di sofferenza e della vecchia nozione americana di viaggio, come di uno sforzo disperato per la libertà (i personaggi di McCarthy si trovano semplicemente in mare, mentre Joel ed Ellie ripercorrono la lunga via per l'Ovest). Entrambi sono quasi sempre impassibilmente tristi. Ok, alcune piccole cose mi hanno rallegrato, come l'enorme sorpresa nel vedere che le giraffe si sono liberate o il benessere che si prova quando il nostro mattone colpisce la nuca con un suono sordo. In generale però il gioco smorza le nostre emozioni al punto da non provare quasi più niente. Ritengo migliore e anche molto più sincera la storia aggiuntiva di Left Behind, l'elegante DLC che ci fa vivere una fase delle vicende non narrate nel gioco principale: Ellie che si prende cura di un Joel ferito in una sequenza di flashback con Ellie e la sua amica Riley. Qui le ragazze hanno tempo per giocare, in una vertiginosa cascata di colore, creatività e amore. La loro relazione sembra una risposta più completa ad un problema che la trama principale mostra solo una volta conclusa: ci deve essere qualcosa oltre la sopravvivenza fine a se stessa per rendere la vita significativa.
Forse la cosa più importante della conclusione di The Last Of Us è la sua finalità. I videogiochi sono un sofisticato mix di tecnologia e design che spesso traggono beneficio dal susseguirsi dei capitoli. I sequel sono attesi, anche se in alcuni ambiti culturali non sono del tutto ben visti. Per questo motivo c'è tensione nell'attesa di un altro The Last Of Us. Alla fine del gioco hanno particolare importanza i lievi movimenti degli occhi di Joel ed Ellie, il rifiuto di lui di vivere da solo e l'accettazione della menzogna da parte di lei che il suo sacrificio non sia necessario. Il destino del mondo e la salvezza degli uomini vengono scelti in quel momento e quindi quali dovrebbero essere le basi di un seguito? Sconfiggere un fungo? Tornare a personaggi che al momento si trovano in una meravigliosa ambiguità?
No, non abbiamo bisogno di un altro The Last Of Us. Naturalmente, però, lo giocheremo tutto d'un fiato e questo è certamente il punto in cui siamo felici della non rispettabilità dei videogiochi. Naughty Dog realizzerà un sequel di The Last Of Us non necessario e di cui i suoi personaggi non hanno bisogno e lo giocheremo per rivivere lo splendido peso dei mattoni e per tornare, ancora una volta, in quel mondo contento di essersi sbarazzato di noi. Non posso aspettare - sarà così poco divertente!