Politica, attualità e videogiochi - editoriale
Il posto dei videogiochi tra i mass media sta cambiando?
La storia di come i videogiochi cerchino di "legittimarsi" come qualcosa di diverso (migliore) dal puro divertimento è ormai abbastanza lunga. Come è lunga, d'altronde, l'altra storia; quella di come si cerchi di delegittimare i videogiochi come qualcosa di diverso (peggiore) dal puro divertimento.
Nel primo gruppo possiamo inserire, ad esempio, tutti gli sforzi di evocare le categorie artistiche come pertinenti; oppure quelle rilevanze pseudo-scientifiche che proverebbero che videogiocando si allena il cervello o si aumentano le proprie capacità cognitive, soprattutto in giovane età. Nel secondo gruppo c'è, un solo esempio per tutti, la becera accozzaglia di chi sciorina un comportamentismo da due lire per addossare al nostro passatempo preferito responsabilità per eventi più o meno violenti.
Ahimè, tutte queste posizioni potrebbero anche essere meritorie di attenzione se si portassero delle argomentazioni degne di questo nome alle rispettive tesi. Invece, quando si parla di videogiochi "artistici" si intervistano i componenti del team di sviluppo, quando si ipotizzano collegamenti tra capacità mentali e utilizzo del videogame si evocano giochini come Brain Training (che è un po' come dare dignità scientifica ai test "psicologici" che si trovano sulle riviste scandalistiche) e quando infine si parla di violenza scendono in campo i giornalisti della stampa generalista (che in Italia sono gli esperti di TUTTO).
A proposito, se vi interessa una visione SCIENTIFICA del problema violenza/spettacolo andate a vedervi gli esperimenti svolti nel lontano 1961 dallo psicologo Albert Bandura. Ora, presa questa rincorsa, voglio parlarvi di come, forse, i videogiochi potrebbero, udite udite, risvegliare una coscienza sociale e politica. Bene, dopo la parola "politica" sarete rimasti in tre-quattro, ma io procedo lo stesso!
Partiamo da un videogioco in sviluppo in Italia. Il suo nome è Riot e altro non è che un simulatore di sommossa basato su eventi realmente accaduti (sul sito si citano quattro campagne: NoTav/Italia, Battaglia di Keratea/Grecia, Rivolta degli Indignados/Spagna e gli eventi recenti di Piazza Tahrir al Cairo). Non si tratta di uno strategico impenetrabile in cui gestire un bazillione di variabili contemporaneamente, tutt'altro, pare si tratti di un RTS dotato tra l'altro di una grafica in pixel art decisamente accattivante.
"I videogiochi potrebbero, udite udite, risvegliare una coscienza sociale e politica"
Ma da qui a farne addirittura uno strumento di sensibilizzazione politico-sociale ce ne passa? Dopotutto, che in un RTS io comandi un tesla trooper o un attivista no-tav non fa molta differenza. O no?
E qui viene il bello. I giochi possono essere visti come sistemi di segni. Oggetti che manipoliamo (secondo certe regole) consci del fatto che stanno per qualcos'altro; a volte conta anche il referente (ovvero la cosa per cui questi oggetti stanno) a volte no.
Un esempio: se gioco a Galaxy Wars non ho alcun interesse a sapere cosa sia l'oggetto che manipolo (la navicella e il suo ipotetico occupante); il mio interesse è ubriacarmi di velocità e perdermi nell'esperienza fino a rantolare per terra con la schiuma alla bocca. Se invece gioco The Forest, giusto per citare un titolo recentissimo, non solo m'interessa ma tanto più ne so, tanto più mi calo nell'esperienza e tanto più ottengo il risultato (ovvero terrorizzarmi e farmi venire gli incubi).
Roger Callois, un celebre antropologo che si è interessato moltissimo di giochi, ha dato una definizione di gioco partendo da quattro categorie fondamentali (che possiamo trovare singolarmente o assortite insieme in un gioco). Agon (il gioco competitivo, la sfida con un'altra entità), Alea (il gioco basato sul caso e sulle probabilità), Ilinx (l'esperienza della vertigine), Mimicry (il gioco di ruolo, la finzione o l'esercizio dell'immaginazione). Il gioco richiede, per funzionare, che si instaurino dei meccanismi con il giocatore.
Allora, per tornare al nostro argomento di partenza, in questo elenco assolutamente incompleto la nostra categoria di riferimento è sicuramente l'ultima: in un'esperienza come quella proposta da un RTS a forte componente d'attualità, una parte del gameplay è basata sulla partecipazione agli eventi raccontati.
Bene. A questo punto passiamo all'altro termine dell'equazione, ovvero all'evento storico da cui dovrebbero scaturire, forse, le riflessioni socio-politiche.
"Il vecchio sogno di potersi informare dalla poltrona di casa si è pervertito in tutt'altro"
Mi pare indubbio che la stragrande maggioranza di noi abbia modo di vivere direttamente una quantità infinitesimale di ciò che avviene nel mondo; nel caso di eventi di questo tipo, ciò su cui facciamo affidamento è la copertura mediatica. Detta copertura mediatica è riproposta, di seconda mano, da altri soggetti che ci circondano (la scuola, la famiglia, gli amici). Quindi l'esperienza che ne facciamo è del tutto mediata (e spesso altamente discutibile, ma questa è un'altra storia).
Per queste particolari entità di cui facciamo esperienza solo mediata (e mai diretta, quindi) la filosofia moderna si è inventata un termine, "simulacro". Di più, Jean Baudrillard (filosofo francese piuttosto celebre) arriva a sostenere che questi simulacri, per come sono costruiti dai media contemporanei, non abbiano alcun corrispondente reale, siano cioè spesso mera finzione, puro frutto di logiche spettacolarizzanti senza alcun residuo di collegamento ai fatti reali. Insomma un prodotto costruito esplicitamente per vendere o servire altri interessi particolari. Nel suo libro The Gulf War did not take place, Baudrillard argomenta proprio in questa direzione.
Nel frattempo i videogiochi maturano e ampliano il loro raggio di interesse. Riot è solo un esempio. Potrei citare il nuovo Democracy 3, i videogiochi di Lucas Pope (Papers, Please ma anche l'interessantissimo The Republia Times) o alcuni titoli di Paradox e Slitherine, ma non solo. A proposito, se non lo avete già fatto, buttate uno sguardo al trailer del nuovo COD (quello con Kevin Spacey per intenderci).
Torniamo a Baudrillard e alla sua guerra del golfo che non è mai esistita...
Ora, mi rendo conto che questa logica "à la Matrix" possa sembrare spinta (leggasi: un filo delirante), ma se la leggiamo come una provocazione e facciamo una carrellata di telegiornali in occasione di qualche sommossa, ci accorgiamo di una drammatica verità. Ovvero del fatto che, a meno che non ci sia un nutrito numero di morti (il jolly della notiziabilità, ma anche questo spesso non è sufficiente), eventi come quelli raccontati in Riot riscuotono ben poca attenzione (e quindi poca copertura) dai media. La preferenza va altrove, spesso sui fatti di cronaca o su notizie "più immediate" o "più vicine".
"Esplorare fa parte della natura del giocare"
Quindi la notizia della categoria che c'interessa o è manipolata (ritagliata, interpretata, travestita) o semplicemente non c'è. Un esempio per tutti, la secessione in atto in Ucraina. Cercate la notizia in uno qualsiasi dei media mainstream e, quando la trovate, quantificate la copertura. Dopodiché andate a compararle con le consuete notizie di gatti salvati, nonne trucidate o bestialità pronunciate dal politico di turno e traete le vostre conclusioni.
La situazione non è nuova ma è sicuramente sottovalutata perché quando se ne parla non si ha la cura di snocciolare quelle che sono le conseguenze. Ovvero il fatto che la notizia come rapporto di un evento con certe caratteristiche di rilevanza viene sostituita da una produzione mediatica che segue logiche diverse, legate a criteri differenti. Fra questi non c'è solo l'audience ma anche tutti i fattori che lo seguono a cascata, come la disponibilità di immagini, la valenza spettacolare e la semplicità. Forse le provocazioni di Baudrillard non sono così lontane dalla realtà, dopotutto...
Il vecchio sogno di potersi informare dalla poltrona di casa (di fronte alla TV o sfogliando il giornale) non solo si è infranto ma si è pervertito in tutt'altro, portandosi dietro l'audience intellettualmente più debole.
I videogame dovrebbero salvarci da questo disastro?
No, non è tanto un ragionare al rialzo sulle intenzioni e sul lavoro concreto dei game designer, quanto un gettare uno sguardo su un sistema mediatico che semplicemente non trova più interessante (o profittevole ma questa è, ancora, un'altra storia) occuparsi di società e politica reale.
E allora ben venga che qualcun altro se ne occupi, magari con quell'entusiasmo e quella disillusione che solo la passione per il proprio lavoro può generare e che fa dimenticare logiche strettamente economiche.
I videogiochi sono ancora un medium giovane che esplora il mondo con curiosità e apertura (basti pensare a quanto è cresciuta la scena indie ultimamente). Forse lo sta facendo per cercare cosa sia più profittevole; o forse lo sta facendo perché esplorare fa parte della natura del giocare.