Prendiamo i voti - editoriale
Storia e considerazioni sparse su un tabù che ci portiamo dietro da trent'anni: i voti ai giochi.
Una volta non c'erano.
Come cosa? I voti. I voti ai videogiochi, da trent'anni causa di polemiche, litigi, scannamenti assortiti, pagine e pagine di reply inferocite sui forum di mezzo mondo (o direttamente in coda ad una review, se il sito in questione lo permette), una volta non c'erano.
La prima rivista italiana di videogiochi, Video Giochi, ideata dal grande Riccardo Albini (cui si deve anche il Fantacalcio e l'arrivo in Italia del Sudoku), i voti non li aveva. Ai tempi, nel 1983, quando la casa editrice Jackson decise di puntare sull'allora neonato Studio Vit per creare in Italia la prima rivista cartacea dedicata ai games, le review erano lunghissime descrizioni del gioco, che veniva sviscerato nei dettagli più elementari e metà dello spazio era occupato dall'elenco minuzioso di quanti punti fosse possibile ottenere uccidendo un omino, un mostro o un alieno.
Altri tempi, ovviamente, in cui non esistevano trama/plot/twist/soggetti e sceneggiature, né bivi narrativi ma in compenso migliaia di appassionati vincevano abbonamenti partecipando alla "Videogara", una sorta di campionato italiano basato su performance e punteggi, aperto a qualsiasi gioco per ogni piattaforma esistente sul mercato.
"Lo psicodramma delle votazioni iniziò a metà degli anni '80 quando, con l'arrivo di Zzap! in Italia"
Lo psicodramma delle votazioni iniziò a metà degli anni '80 quando, con l'arrivo di Zzap! in Italia, ci si rese conto che i lettori avevano sete di sangue, pardon, di informazioni più dettagliate per decidere se investire i propri risparmi in un titolo piuttosto che in un altro. Giochi più complessi uguale recensioni più articolate, uguale necessità di scorporare i parametri di un gioco, salvo riunirli e sintetizzarli in un numero e una percentuale.
Nacque così la famigerata distinzione che è servita da parametro per tutti i magazine off e online per gli anni a venire: presentazione, grafica, sonoro, appetibilità, longevità, rapporto qualità prezzo e globale. Di queste voci, particolarmente significative per quei tempi erano "presentazione", un calderone nel quale si buttava dentro tutto, dalla confezione alla schermata introduttiva del gioco (che sì, a quei tempi potevano fungere da discriminante) e "rapporto qualità/prezzo", una voce che oggi può sembrare un po' ingenua (per quanto...), mentre allora un titolo Mastertronic appena decente ma a poco prezzo poteva risultare più appetibile del The Last Ninja del caso.
"È curioso notare come la scala numerica videoludica assuma valori diversi rispetto alla stessa scala utilizzata in altri ambiti"
Il voto globale non rappresentava la media matematica delle voci sopracitate, espresse in centesimi, ma un voto complessivo che poteva far rientrare il gioco nelle due categorie "doc" del tempo: la "medaglia d'oro" e il "gioco caldo", equiparabili calcisticamente alla zona Champions e all'Europa League. Alcune testate provarono a variare questo schema, come K (inizialmente la versione italiana dell'inglese ACE), che espresse i voti in millesimi, inserì un titolo che serviva da benchmark nel proprio genere d'appartenenza (ricordo con sgomento il giorno in cui Monkey 2 venne spodestato dal nuovo Zork) e inserì persino un grafico con un curva che indicava la presunta longevità del gioco. Insomma, di strade se ne sono battute parecchie.
È curioso notare come sia in questo periodo che la scala numerica videoludica, che va da uno a dieci, inizi ad assumere valori diversi rispetto alla stessa scala, utilizzata in altri ambiti. Se a scuola uno studente infilasse una serie di 6 e 7 a ripetizione, potrebbe a buon diritto ritenersi soddisfatto. Il sei ludico è invece da sempre ritenuto una sonora bocciatura, il sette una magra consolazione, mentre chi prende otto si domanda quali gravi lacune gli abbiano negato il nove. I dieci, rari, fanno peraltro uscire dalle grotte ove stanno rintanati per mesi gli hater, che non perdono occasione per stigmatizzare quanto la perfezione non esista, e via dicendo.
"Negli ultimi anni i voti hanno acquisito un peso specifico fin troppo importante, suscitando spesso reazioni scomposte da parte del pubblico"
Più o meno tutte le riviste prima e i siti videoludici poi, hanno seguito per anni questo modus operandi, modificando alcune voci e togliendone altre fino all'epoca attuale, nella quale, fatte salve alcune realtà, i voti vengono espressi in maniera uniforme, facilitando il compito di aggregatori globali come il famigerato Metacritic, icona di un mercato radicalmente cambiato rispetto al passato.
Ma i voti servono? Secondo me, sì.
Il voto è una sintesi comoda. Serve al lettore che non ha tempo di leggere una o più review per farsi un'idea della qualità del gioco, serve al publisher per stilare report ed eventualmente bullarsene se la cifra è alta, serve al recensore per tirare le somme alla fine della review che si spera i lettori leggano.
Certo, negli ultimi anni i voti hanno acquisito un peso specifico fin troppo importante, suscitando spesso reazioni scomposte da parte del pubblico. Questo, secondo me, dipende da due fattori. Il primo è che oggi troppi gamer (e anche molti attori nell'industry) amano gli assoluti. O un gioco è un supercapolavoro o viene immediatamente bollato, nella migliore delle ipotesi, come titolo da cestone a 9.90 euro.
Le mezze misure, come le mezze stagioni, non esistono più. L'ovvio assunto che "la bellezza è nell'occhio di chi guarda", è spesso dimenticato o dato per scontato. La bocciatura di un titolo di cui si è sostenitori, diventa agli occhi del fan una critica personale, un affronto oltraggioso, una ferita mortale, qualcosa che lo colpisce nell'intimo: da qui la difesa con il coltello tra i denti e gli occhi iniettati di sangue.
Anche le "linee editoriali" pesano nell'economia di un voto. Non che questo sia un vezzo circoscritto al solo ambiente dei videogiochi, anzi. Chi vive di pane e Wong Kar Wai o Kiarostami, probabilmente schiferà a prescindere ogni "action ignorante" e la stessa critica di un film "a tesi" letta su testate politicamente antitetiche rifletterà queste divisioni.
"I piaceri nascosti, quelle opere massacrate dalla critica di cui si "deve" sparlare in pubblico ma che si amano e giocano, esistono in ogni forma d'arte ed intrattenimento"
È interessante notare come talvolta "il senno di poi" suggerisca retromarce tardive, anche a distanza di anni. Qualche tempo fa, ad esempio, Edge, forse il magazine videoludico più famoso del mondo, ha pubblicato un articolo con tutti gli abbagli (veri o presunti, ma il confronto è con la Storia e la Storia non sbaglia mai) presi negli ultimi anni.
Voti troppo alti o troppo bassi, percezioni errate, valutazioni fuori parametro. Forse per giudicare nel modo più ottimale un titolo servirebbero anni e quindi come si fa? Per uscire dall'empasse dei voti a mio parere servono semplicemente tre cose. In primo luogo, prendere atto del fatto che il "voto oggettivo", non esiste. In seconda battuta che ogni lettore dovrebbe parametrare il voto alla propria scala di valori, che varierà a seconda di parametri soggettivi formatisi nel corso della sua vita ludica.
Ad esempio, io abitualmente schifo gli FPS e ignoro di default titoli di questo genere anche se dalle votazioni altissime, ma ho scoperto che alcuni giochi, se dotati di un certo stile grafico e di un particolare approccio e modus operandi, riesco ad apprezzarli alla grande anche se ricevono voti più bassi rispetto ai top della categoria.
Infine, bisogna prendere atto che i piaceri nascosti, quelle opere massacrate dalla critica di cui si "deve" sparlare in pubblico ma che si amano e giocano, quando nessuno ci guarda, esistono in ogni forma d'arte ed intrattenimento, a prescindere dalla loro qualità certificata o certificabile.
E adesso fatemi vedere cosa c'è di bello nel cestone da 9.90...
Andrea Chirichelli è co-founder ed editor di Players Magazine, un progetto editoriale che mira a discutere di intrattenimento in maniera matura e indipendente, coinvolgendo un pubblico smaliziato e vagamente geek.