Prince of Persia compie trent'anni! - speciale
La storia del principe delle sabbie
Prima o poi ogni videogiocatore può incontrare il Principe nella sua veste originaria. Dapprima un popolano disarmato, bianco e biondo come Luke Skywalker; poi un condottiero armato di spada (più simile a un fioretto che a una sciabola), in lotta con gli uomini in turbante di Jaffar per salvare - guarda un po' - la principessa, reclamando così il trono. Forse l'abbiamo aiutato nella modalità extra delle Sabbie del Tempo (con l'abito sbarazzino visto su Sega Genesis), prima di arrenderci per tornare alle sue imprese più moderne su Playstation 2. Probabilmente anche nel remake Prince of Persia Classic (2007), dove è ammantato di poligoni.
In origine, il titolo fu pubblicato nel 1989 da Brøderbund (sviluppatori di Choplifter e publisher di Myst). Raggiunse innanzitutto Apple II, una serie di computer rimasta in commercio per molti anni (1977-1993). In quella data girava la versione GS, 16-bit e con SO ProDOS, per chi volesse scavare un po' nella storia dell'hardware. Non si contano poi le versioni per altri sistemi, spesso rimaneggiate (e non a caso a volte meno fluide per quanto riguarda le animazioni). La più interessante resta certamente quella per SNES, nella quale sono stati aggiunti boss e dettagli agli sfondi, resi più evocativi, ricchi e in alcuni casi persino demoniaci (val la pena citare l'incontro con Shiva, divinità multi-braccia).
Una Persia visitata attraversando un dungeon e risalendo un palazzo dalle finestre a grate tipicamente arabe (con le griglie note come mashrabiyya), disseminato di trappole letali, botole e piastrelle semoventi, burroni e lame taglienti. Un labirinto verticale, da superare con passi oculati, arrampicate millimetriche e rincorse che nulla hanno da invidiare al platforming di Tomb Raider. Un gioco dove dunque la pixel-art la faceva da padrone, dalle geometrie dei pavimenti ai giochi di luce sugli sfondi. Dove i riflessi del giocatore - o la conoscenza della mappa - dovevano raggiungere livelli assoluti.
Ad aiutare e rendere immersivo il tutto, la cura rivolta alle animazioni degli sprite. Un esempio: nella versione originale, il Principe non solo si muove in modo flessuoso (forse un unicum videoludico nella sua capacità di piegarsi come un giunco, se non un'anguilla), ma rivolge lo sguardo in direzioni ben precise, ondeggia le braccia, tentenna. Questo aiuta a creare una sensazione d'avventura non indifferente: immaginate un Indiana Jones impassibile, che non guardi un tetto che crolla, un burrone che si apre sotto i piedi, e sarà evidente perché si tratti di un dettaglio che fa davvero la differenza, un tocco di realismo non casuale.
Il merito di quest'attenzione rivolta all'animazione è infatti di Jordan Mechner, programmatore e scrittore, nonostante i limiti dell'epoca autore a tutto tondo. Mechner adottò la tecnica del rotoscopio, cioè calcò un video (trasferito dal VHS) in cui erano filmati i movimenti di un suo collaboratore (il fratello) che saltava, si piegava, correva. Chiaramente, in termini artistici, il calco senza uno studio oculato dietro rischia di portare con sé degli errori anatomici e grafici, ma giocando Prince of Persia è evidente quanto bene abbia fatto all'identità del protagonista e quanto l'implementazione risulti elegante e vitale.
Non parliamo affatto di un gioco facile, anzi, forse è proprio impietoso, se pensiamo che si tratta di una continua corsa contro il tempo: un'ora soltanto, fortunatamente inframezzata da livelli da cui è possibile riprendere il salvataggio (superato il terzo stage). Insomma, non si completa improvvisando, ed è un tesoro per speedrunner. Insieme a danni da caduta, insta-death, combattimenti un po' troppo meccanici fatti di tocchi di arma bianca e distanze da misurare sudando freddo. Un gameplay figlio del suo tempo, che dunque - nonostante sia un giudizio con qualche grado di soggettività - non è invecchiato senza subire colpi: per aiutare a contestualizzare basti pensare che negli stessi anni c'era già un Super Mario Bros 3.
Nel 1993 esce Prince of Persia 2: The Shadow and the Flame, Brøderbund collabora con Psygnosis (Wipeout). Un altro side-scroller, un more of the same con qualche miglioramento per quanto riguarda giocabilità, slot salvataggi e comparto sonoro (più memorabile ed esotico). L'atmosfera, complice un comparto estetico coloratissimo, questa volta è davvero da Mille e una Notte; il fascino di attraversare le crepe delle pareti per ritrovarsi in enormi templi pieni di fiaccole è da perdere il fiato. Non è necessariamente un piacere proibito riservato ai soli estimatori della grafica retrò.
La trilogia classica si conclude con la disastrosa uscita di Prince of Persia 3D (1999), nato dopo una lunga gestazione che ha portato a bug, cattiva IA, gameplay non responsivo, trama scialba, camera e gestione delle luci non convincente. La critica più nota e feroce è la sua somiglianza eccessiva a Tomb Raider; una lancia a favore è che semmai il debito è reciproco, se consideriamo quanto il primo Prince of Persia si fondi sull'appigliarsi, dopo salti ben oculati, a spigoli sui bordi dei precipizi. Sembra dunque logico che nella "traduzione" tridimensionale la maestra da emulare divenisse Lara Croft. Il vero problema è che, gameplay a parte (in parte sistemato con bugfix e nella versione Arabian Nights), nel fare questo si è dimenticato di dare al Principe la vitalità che l'ha reso un pilastro videoludico.
A questo ci penserà le Sabbie del Tempo (2003). Jordan Mechner, anche in questo caso, è tra i consulenti e i game designer. Dove non poteva arrivare neanche la grafica della nuova generazione, ci pensano le acrobazie da parkour del nuovo principe. Carismatico non tanto per aspetto e carattere, ma proprio nel modo in cui vola da una parete all'altra, facendo fluttuare tende, balzando dietro le spalle dei nemici, roteando e arrampicandosi ovunque. Un'evoluzione per i videogiochi come lo è stato il Bullet Time di Matrix per il cinema? Forse è osare troppo, ma certamente parliamo di un titolo che riuscì a conquistare a partire dalla cinetica dei corpi. Proprio come accadeva nel 1989.
Sand of Time è quindi il secondo momento di splendore della vita del franchise, forse l'ultimo per creatività. La possibilità di riavvolgere il tempo capovolgeva le premesse del passato: stavolta abbiamo tutto il tempo del mondo per completare l'avventura, possiamo ritentare e risolvere i più banali dei nostri errori, prendercela - relativamente - comoda. I puzzle, introdotti già nel precedente gioco, danno un ritmo diverso all'esplorazione del palazzo di Azad assediato dalle sabbie, con cutscenes ben dosate, percorsi nascosti, punti di ristoro dal sapore fiabesco e battaglie rimaneggiate per tentare (ma niente più di questo) di reggere il confronto con colossi come Devil May Cry.
Con Spirito Guerriero (2004) subentrano colonne sonore metal, non sempre adeguate. L'IP punta a toni oscuri, sistema il combattimento cercando di aggiungere varietà, eppure qualcosa non convince la critica e il pubblico. I Due Troni (2005) prova a ricondurre al design estetico originale, ma il risultato non ha ancora sufficiente magnetismo. Nel corso degli anni God of War, stando a Ubisoft, è preferito per difficoltà e meccaniche: il battle system di PoP ha ancora qualcosa di legnoso e invadente. La resa estetica della mitologia, la complessità architettonica dei puzzle di Santa Monica, sono certo più allettanti dei backtracking continui di Spirito Guerriero, che appiattivano, colpevole anche il cambio di tono, il mistero del capitolo precedente.
Alla trilogia si aggiunge Le Sabbie Dimenticate (2010), che forse rende evidente quale sia stato il vero problema dei due titoli precedenti, che in fondo non sono certo dei disastri, semmai mediocri in confronto al primo passo e ai rivali. Questo PoP cercava di riprendere le meccaniche delle Sabbie del Tempo, come se fossero l'unica ragione del successo del gioco. Cercava di titillare la nostalgia dei giocatori, e riproponeva un gameplay classico, se non proprio vecchio.
E credo che sia questo il punto: con l'avanzare della tecnologia, con l'abitudine, da Spirito Guerriero in poi non si ha quel senso di meraviglia di fronte alle piroette del principe. Anzi, rientrano fin troppo nella normalità. C'è un motivo se parallelamente non tutti i giochi dell'era 16-bit sono stati fatti con la tecnica del rotoscopio: è come riconoscere il trucco di un mago prima ancora che finisca la magia.
Ecco quindi che val la pena chiamare in causa Prodigy (2008), il figlio di mezzo che dimostra che per un breve lasso di tempo il Principe ha sempre qualcosa da dire. In questo settimo capitolo si investiva sulle emozioni, sull'impatto scenico e sul design del background; sul viaggio arioso e un po' poetico, accentuato dal delizioso cel-shading, nel tentativo di scacciare le corruzioni di Ahriman. Semplicità del gameplay, effetti di luce, colori accesi, fluidità e fusciacche al vento del protagonista avevano la loro parte. Così il rapporto con Elika, raccontato con quella sapienza narrativa che aveva portato, nel 2003, il principe a salutare Farah con la famosa chiusura: «Chiamami pure Kakolookiyam». È stato, insomma, il terzo momento di splendore.
La saga ha altre diramazioni che come è ovvio sono accessorie, da Fallen King per Nintendo DS (2008), titolo divertente ma basico, al film del 2010, diretto da Mike Newell e prodotto grazie a Disney, anticipato da varie graphic novel curate proprio da Jordan Mechner. Quest'excursus storico, in omaggio al guerriero delle sabbie, è accompagnato dal desiderio di rivederlo nella prossima Gen, dopo tanto tempo. Paradossalmente, dopo l'ondata di realismo delle origini, adesso potrebbe condurre a un'ondata di magia, dove si rischia una deriva iperrealista; come col giro di clessidra, quindi, tutto si riequilibra. Anche ripescando, di anno in anno, un franchise che non ha voglia di farsi seppellire dalle sabbie. Vedremo se a torto o a ragione.