Rainswept - recensione
Una storia che scivola come pioggia.
Dalle one-man-band ai one-man-studios: i cantautori del mondo videoludico. L'industry ci ha insegnato che spesso il meglio accade all'improvviso, e proprio da lavori costruiti, si direbbe composti, in lunghi anni di reclusione. Alle volte nell'ambiente solitario della propria stanza - o scantinato. Toby Fox, ZUN, Thomas Happ (Axiom Verge), Joakim Sanderberg (Iconoclasts), e tanti altri, fanno parte della schiera di valorosi. A volte il team viene postumo, o è davvero ridotto ai minimi termini.
La nuova leva di oggi è Aarman Sandhu, aiutato soltanto per quanto riguarda il comparto musicale dal dream pop di micAmic (The Cat Lady, Lorelai). Architetto, per poco nell'industria cinematografica, con Rainswept diventa Game Designer... e programmatore, disegnatore, screenwriter. Presenta un'avventura grafica semplice, come è classico il genere giallistico proposto: un murder mistery nella pacifica, isolata, cittadina sul mare di Pineview. Un omicidio-suicidio che coinvolge una coppia appena trasferitasi. Una comunità che - chissà - forse nasconde qualcosa.
Il protagonista della vicenda è Michael Stone, un gumshoe (o meglio, PI) a sua volta archetipico: impermeabile, fumatore (c'è un comando che ha il solo scopo di prendere e riporre la sigaretta), cultore del caffè (un Dale Cooper del caso), amante dei fatti, delle prove, e del dubbio sistematico. Si direbbe genre-savant: è convinto che qualcosa non quadra, altrimenti non sarebbe stato chiamato. Sicuro, coraggioso, poco umorismo ma professionalità fino allo sfinimento. «Saresti simpatico se non spingessi così tanto questa teoria dell'omicidio!» dice uno dei comprimari, un poliziotto come tanti, dedito al suo mestiere e alla sua famiglia (lontano dalla pensione).
La comprimaria, spalla e Watson decisamente in gamba della situazione, è l'ufficiale Amy Blunt. Svelta, intelligente, ma alle prime armi. Sembrerebbe pescata ad hoc da un prontuario di Npc. Sembrerebbe... ecco la bellezza del titolo: che come insegna il metodo deduttivo (dal generale al particolare), trasforma gli archetipi in personaggi dettagliati, profondi, credibili e toccanti.
Una deriva intimistica, in un giallo che non chiede al giocatore di investigare, risolvere enigmi e cercare strumenti ben nascosti. Ogni indizio è ben in vista. Il gioco si limita a un invito: prendere per mano Mike, condurlo da un testimone all'altro per svelare - quasi passivamente, come in un film - l'intera vicenda. Il tutto tra momenti onirici e flashback scritti con grande cura, ed esteticamente convincenti. Ciò, ci pare, non farà felici gli amanti della detective story incentrata sugli inghippi logici, ma garantisce una gestione narrativa (dal pacing ai twist) millimetrica, che punta all'aspetto emotivo. Il mistero vi terrà incollati per circa cinque ore, e non escludiamo che possiate bruciare l'esperienza in una notte.
Un'avventura grafica dove la trama la fa da padrona, con soli due momenti puzzle, purtroppo molto brevi e poco riusciti. Chi gioca può esplorare la cittadina, decidere a chi rivolgersi, l'ordine con cui sciogliere gli eventi. Approfondire - se vorrà - la vita di alcuni personaggi più che secondari. C'è qualche scelta, in termini di gestione dei dialoghi, che crea bivi e offre sfaccettature caratteriali a ogni "attore" coinvolto, oltre a sbloccare gli achievement non connessi al Main Plot. Niente a che vedere con ciò a cui ci ha abituato (la fu) Telltale: a prescindere dalle tortuosità con cui si potrebbe arrivare al punto B, la strada è - se possibile - molto più lineare.
Quindi: gameplay essenziale, basico (si passeggia). Storia al cuore dell'esperienza (bellissima), grafica... azzeccata, spettacolare nei campi lunghi, troppo piatta a distanza ravvicinata, nonostante una buona gestione di zoom, geometrie e spazi. Sono i dialoghi, ogni tanto, a creare un po' di confusione: seguono i movimenti della telecamera, rintanandosi negli angoli dello schermo. Un effetto che a volte crea dinamismo, altre volte fastidio.
Del dettagliatissimo taccuino degli appunti, che avremo in dotazione, resta giusto la cura con cui è stato ideato: è qualcosa che è bello possedere, ma come molte cose belle non ha davvero utilità. Simile ai diari di Life is Strange, molto lontano da quanto visto in Return of the Obra Dinn (Lucas Pope, altro "lupo di mare" videoludico). Anni '90, quindi tecnologia per niente invadente, che a investigare con uno smartphone sono bravi tutti. Autosave comodo e perfettamente funzionante. Qualche saltello nel riposizionamento degli item di gioco, durante le transizioni da una scena all'altra.
La città, l'ambientazione, merita un paragrafo a parte. È uno stratagemma visto e rivisto, ognuno di noi sa quanto è affezionato o meno all'ennesimo pseudo-luogo. Se per impatto visivo funziona, con i suoi edifici di mattoni rossi e i suoi abitanti, il suo realismo tinto di colori degradanti e panorami ampissimi, per molti aspetti è carente. Manca un background urbano dettagliato, ed è facile accorgersene visitando proprio gli edifici più importanti: l'ospedale, la chiesa, la centrale di polizia. Sono luoghi che, anche quando visitati, restano nel range del generico. Ma è il pelo nell'uovo: nulla che tiri fuori dall'immedesimazione.
Una tragedia tinta di nuvole, pioggia, fumi di bar e denti di leone al vento. Pinete a non finire, un mare invernale, un cielo che - nella triste vicenda narrata - nasconde gelosamente una luminosità soffusa: un sentore di riscatto, dato forse da una pioggia che lava via i peccati, i ricordi e i dolori. È come se al caldo oceano Pacifico dell'Oregon (che sa un po' di Night in the Woods, o dell'Arcadia Bay di Dontnod), si sostituisse un altro tipo di West Coast, simile per strapiombi, diversa per anima.
Disclaimer importante (e non è spoiler, in quanto comunicato non appena ci si immerge nell'esperienza), è che i temi trattati riguardano argomenti delicati, tra i quali appunto il suicidio. È difficile che la storia vi abbandoni, una volta vissuta. Sferraglia come un treno di campagna: rilassante, ma pur sempre travolgente. E questo a prescindere dalla verità dietro il mistero, che persino nei migliori romanzi di Christie, potrebbe avere quel sentore di inganno. L'inevitabile fondino del caffè. In ogni caso Sandhu sa raccontare, e il suo primo lavoro vale la spesa, equivalente a quella di un buon libro. L'invito è quello di riflettere sulla personale predisposizione al media: Rainswept è un caso di "plot over gameplay", ma anche di indubbia autorialità.