Rambo: Last Blood - recensione
“Non sono cambiato, ho solo imparato a contenermi”.
È diventato vecchio John Rambo, insieme a Sylvester Stallone, l'attore che con lui, grazie a lui, ha conseguito quell'eternità che il cinema regala ai suoi eroi.
Dal 1982, anno in cui lo abbiamo conosciuto in First Blood, il primo film della serie (per il mercato internazionale il titolo era stato cambiato in Rambo), quanti "cattivi" ha affrontato e intanto quanti amici ha perso, quante persone a lui care ha visto cadere sotto i colpi della malvagità intrinseca nella razza umana?
Potevano mancare quelli che negli ultimi anni sono diventati i più terrificanti e sadici assassini, i trafficanti messicani (come sempre l'Ente turismo di quella nazione ringrazierà per la pubblicità positiva)? Undici anni dopo la ripresa del 2008, Rambo ritorna così protagonista di una storia che segue lo schema consolidato dell'eroe solitario, rappresentato in tanti western, genere che meglio incarna l'essenza dell'americanità.
C'è sempre, e sempre ci sarà qualcuno da salvare, dopo i prigionieri americani rimasti in mano ai vietcong (1985), dopo i mujaddin vessati dai Russi (1988), dopo l'etnia Karen in Birmania (2008), ora John aiuta chi può, anche semplici turisti persi nella tempesta. Perché "no man left behind" e, se capita, i sensi di colpa non si lasciano sconfiggere da qualche medicina.
Oggi in questo quinto capitolo, Rambo: Last Blood, lo ritroviamo nella sua fattoria nell'Arizona, a lui lasciata dal padre, dove ha messo su un simulacro di famiglia grazie alla vecchia governante messicana e a sua nipote, trovata bambina nel 2008, quando era tornato a casa, e oggi adolescente in procinto di lasciare la fattoria per frequentare l'università.
Ma nonostante i saggi consigli di John, lei decide di fare un'incursione in Messico, per cercare il padre che l'aveva abbandonata da piccina. Qualcuno non ha ancora intuito cosa succederà? La ragazza scompare e John va a cercarla, scontrandosi con un mondo di compiaciuta crudeltà, che rischierà di sconfiggerlo. E Rambo, come ha sempre usato fare, si rintanerà nel suo territorio, fra le sue trappole, in attesa dell'avversario.
Si avverte lo sforzo della sceneggiatura per costruire a Rambo un background, il legame con la vecchia domestica e la ragazza, tale da creare il pretesto per lo scatenarsi della collera e della conseguente vendetta, perché Rambo mai ha avuto una parentesi sentimentale, mai è stato plausibile immaginargli una famiglia. E faticosi sono i dialoghi che vorrebbero restituire al personaggio una parvenza di intimità.
Ma mentre si paventa una nuova versione di Taken (anche se in confronto a Rambo, il personaggio di Liam Neeson può sembrare solo una vecchia zia arrabbiata), la storia vira in una direzione di inaspettata durezza, che giustifica l'escalation di violenza finale che supera il prevedibile, con una sequenza di ammazzamenti cruentissimi, degni di uno splatter horror. Perché la violenza chiama, esige altra violenza.
Sui titoli di coda troviamo tanti fotogrammi e qualche brevissimo spezzone, tratti da tutti i vecchi film, dal primo all'ultimo in ordine cronologico, che un fan si potrebbe anche commuovere. Una carrellata infinita di uccisioni di carogne, perché questa è stata la vita per John, un susseguirsi di eventi che hanno solo confermato quello che il suo sguardo disilluso ha sempre lasciato trasparire: il mondo è un posto orribile. L'ultima scena del film e quella finale sui titoli di coda potrebbero piacere a Clint Eastwood, e chi vedrà capirà.
Consigliamo la versione originale perché il doppiaggio non restituisce la voce dell'attore, che gorgoglia le sue poche lapidarie battute, spesso sussurrate, facendo vibrare note bassissime. Yvette Monreal, passata attraverso qualche serie tv fra cui Stargirl, è plausibile nel ruolo della protetta di Sly, specie nella seconda parte. Paz Vega, in versione dimessa, compare brevemente nel ruolo di una giornalista che aiuta Rambo nella sua ricerca. Adriana Barranza, faccia vista in molti film e serie tv, è la vecchia governante protettiva.
Stallone collabora (e come dubitarne) a storia e sceneggiatura insieme a Matthew Cirulnick (la serie Absentia) e Dan Gordon (un curriculum di action). Il personaggio Rambo non è stato creato da lui, come Rocky, ma è di David Morrell, che non ha più avuto bisogno di fare altro nella vita. Dirige Adrian Grunberg, una carriera come regista di seconda unità (tutti titoli di serie A, fra cui Man on Fire, Amores Perros, Traffic, Apocalypto, la serie Narcos), che già nel 2012 si era occupato di un soggetto ambientato in Messico, con Viaggio in Paradiso, il film in cui Mel Gibson finiva in una di quelle agghiaccianti prigioni che cinema e serie tv (ma anche la cronaca) ci hanno fatto conoscere. Qui si limita a essere al servizio della storia e di Sly e vista l'efferatezza e la brutalità delle scene, negli USA il film è vietato ai minori di 17 anni, in Italia al momento non si sa ancora.
Rambo: Last Blood ha una trama elementare, quasi fosse la versione estesa di un trailer che sembra raccontare già tutto e che invece comunica del film un'immagine più scadente. Perché pur nella sua struttura lineare, nelle sue meccaniche prevedibili, nelle inevitabili iperboli, alla fine qualcosa salva il film, dopo che ha messo in fila una serie di fatti telefonatissimi, dove tutto si dichiara fin dalla comparsa in scena dei trafficanti, scelti con cura per attirare antipatia solo a guardarli (immaginiamo che sfilata di facce possa essere stata il casting per "messicano cattivo"). Da gente così ci possiamo aspettare solo nefandezze, mentre come un agnello sacrificale una giovane ragazza se ne va tutta sola nella tana dei lupi.
In fondo i film del filone Rambo sono sempre stati dei B-movie, storie che dovevano unicamente far scattare il primordiale istinto della vendetta nello spettatore affamato di giustizieri, e questo (forse) ultimo capitolo ne rappresenta l'apoteosi. Nell'intensità della maschera drammatica di Stallone, nella sua devastata vecchiezza, nell'insanguinato finale, c'è però qualcosa di più. C'è il sangue, la ferocia, la disperazione (e la solitudine) di tutte le stragi di un mondo che trabocca morte.
Nella sua cosmica sfiducia sulla possibilità che qualcosa possa mai cambiare, nella stanchezza con cui si fa carico di tutti i mali del mondo, rivediamo il nostro scetticismo, la nostra mancanza di speranza in un mondo migliore di questo, dove "il Male si evita, non si sconfigge mai", ci passa accanto parallelo e guai a incrociare la sua strada. Perché certo, esiste la vendetta, che però non costituisce soddisfazione, consolazione. Non restituisce i tanti morti collezionati in una vita violenta, come dirà John nel suo breve monologo finale.
Nel film John Rambo, uno dei personaggi diceva che tre sono i passaggi essenziali nella vita di un uomo: una battaglia da combattere, un viaggio per andare avanti e un amore da riconquistare. Di battaglie Rambo ne ha combattute troppe, i suoi viaggi non hanno portato in nessun posto migliore, e l'amore non c'è mai stato.
Che destino potrà mai attendere quest'uomo troppo stanco? Tutto questo sangue versato sarà l'ultimo? E che mondo abbiamo costruito per i nostri figli, che John Rambo non potrà proteggere tutti?