Il razzismo e le serie tv: Carnival Row e Warrior - editoriale
L'unico diverso buono è un diverso morto?
Come cibi mai davvero digeriti, temi irrisolti continuano a riproporsi allo stomaco del "popolo", argomentazioni mai assimilate tornano a ripresentarsi ciclicamente. E non solo nelle nostre vite ma anche nella fiction, che tanto finta non è mai, perché i film e le serie spesso non inventano niente di nuovo, ma si rifanno alla realtà.
Siamo continenti, nazioni, siamo città, borghi, siamo persone. Ci sentiamo assediati, messi in pericolo da chiunque sia "diverso", abbia colori della pelle, usi e costumi, religioni e linguaggi diversi dai nostri. Il "diverso" lo guardiamo con diffidenza, con sospetto, perché non ci fidiamo, chissà cosa potrà fare, contro di noi (mai per noi, insieme a noi). Così è sempre stato e sempre sarà, a quanto pare. Due serie tv ci hanno fatto riflettere di recente sull'argomento (come non bastasse lo studio della storia e la cronaca quotidiana): Carnival Row (Amazon Prime) e Warrior (Sky).
In Carnival Row, scritta dal Travis Beacham di Pacific Rim, gli "immigrati" sono creature fantastiche, deliziose fate con le ali da Trilli, folletti, streghe, altre fantasiose creature e anche inquietanti specie di fauni, che fuggono dalla loro isola di Fae, devastata dalla guerra con gli spietati abitanti della Terra di Pact. Le creature vengono traghettate clandestinamente e a caro prezzo nel Bughe, anch'esso abitato da umani che però si sono sfilati dal conflitto e sembrano offrire asilo ai poveri fuggiaschi. Che però finiscono a fare tutti i lavori peggiori, compresa la prostituzione, visti di malocchio dai soliti "benpensanti", che li usano disinvoltamente ma sono inquietati dal loro aspetto così diverso e dalla loro disperazione, che rende alcuni di loro pronti a tutto. L'ambientazione si rifà a una vaga epoca vittoriano/steampunk e, mentre la vicenda si snoda, intreccia l'indagine su un assassino seriale stile Jack the Ripper alla storia d'amore fra una bellissima fata (Cara Delevigne) e un ispettore di Polizia (Orlando Bloom).
Al contrario con Warrior, tratta da scritti di Bruce Lee degli anni '70, sceneggiata da Jonathan Tropper (Banshee), cui ha collaborato come produttore esecutivo Justin Li (Fast & Furious), siamo nella storia vera, a San Francisco, nel 1878. Là dopo atroci traversate trans-oceaniche vengono sbarcati a ciclo continuo stuoli di miserabili cinesi in fuga da un paese dove si moriva di fame, soggetti a signorotti e a malavita locale peggio che nel Medioevo. Trattati come bestie, finiscono sfruttati nei peggiori modi dai connazionali, già inseriti nel contesto (esisteva già Chinatown), e dai bianchi ben felici di usare manodopera senza nessun diritto e a prezzi stracciati. E si prendono loro tutte le colpe, affamati dai datori di lavoro, ma massacrati a ogni occasione dagli irlandesi, di poco a loro superiori nella scala alimentare, che li accusano di portare via il lavoro. Qui i veri "cattivi", più ancora dei malavitosi cinesi, sono proprio loro, un'etnia di violenti e bigotti ubriaconi, cattolici osservanti e pertanto muniti di schiere di figli da crescere nell'indigenza. Intanto la Polizia gira la testa dall'altra parte, mentre la Politica pensa solo a potere e soldi. L'argomento dello sfruttamento dei cinesi era ben presente già nella serie Hell on Wheels, che narrava la costruzione della First Transcontinental Railroad. Inoltre, senza andare tanto lontani nella storia, nella seconda stagione di The Terror si racconta una storia horror, ambientata fra i giapponesi internati nei campi di concentramento americani durante la Seconda Guerra, dove negli spiriti malvagi che perseguitano gli sventurati non è difficile cogliere allusioni politiche.
Molte serie recenti hanno raccontato come il razzismo, che specie in epoca di "politicamente corretto" sembra davvero roba da trogloditi, sia invece ben presente in vari aree della realtà anglosassone, concentrandosi soprattutto sulla "madre" di tutte le discriminazioni, quello dei bianchi nei confronti dei neri. Nella bellissima serie American Crime, nella prima stagione veniva trattato un caso di cronaca nera in cui si arrivava a una conclusione tragicamente opposta alle supposizioni iniziali (nella seconda si parlava di gay e nella terza di lavoratori messicani, per non farsi mancare nessuna categoria). Nella splendida serie crime The Night Of (con John Turturro e Riz Ahmed) si raccontava ancora un caso "giallo", un omicidio di ragazza bianca appioppato con estrema disinvoltura a un ragazzo di origine pakistana (si sa che anche vari sfumature di "colorato" fanno scattare i pregiudizi, specie se abbinati all'avversione per certe religioni).
Con tono più leggero, con humor spesso caustico, abbiamo avuto serie come Atlanta (vero caso mediatico, nella sua narrazione a tratti surreale di cosa rappresenti essere neri nell'America di oggi) e Black-ish, spiritosa e cinica nel suo discettare su una vasta gamma di argomenti che sono condivisi da bianchi e "colored". É ancora visibile su Netflix l'angosciante They See Us, ricostruzione di un caso giudiziario agghiacciante, così come nell'inglese Seven Seconds, mentre senza prendersi sul serio ma cercando la risata facile, in The Nighborhood una coppia bianca e politicamente correttissima finiva per abitare, causa difficoltà economiche, in un quartiere di neri medio-borghesi, scontrandosi con i pregiudizi di un caratteriale capo-famiglia assai nero. E, sempre per esplorare tutti i campi, nelle serie tv Humans si è trattato anche il tema del razzismo nei confronti dei non umani, pur creati da noi, i cyborg, che come altre minoranze "umane" sono finiti a fare i lavori più umili, pesanti e sgradevoli, pulizie, accudimento, sesso. Troppo simili pertanto a degli schiavi, mettendo così in agitazione le cattive coscienze umane.
Nulla di nuovo, dopo che nei lontanissimi anni '60 sembrava che ogni discriminazione, ogni forma di razzismo fosse in via di estinzione e chi ancora provasse simili sentimenti lo facesse di nascosto, per vergogna o timore dell'altrui disapprovazione. Perché in questi anni di narrazioni sul razzismo ne abbiamo avute tantissime, in aumento nel periodo più recente, anche perché in generale si trattava di prodotti americani, dove la discriminazione nei confronti dei neri non è mai morta e ad essa si è aggiunta quella contro i latini, col crescere della loro percentuale di popolazione. Ovvio l'accanimento verso "l'arabo cattivo" dopo l'11 settembre. Qua e là è balenato l'argomento dei nativi americani, bistrattati ed emarginati ancora più ferocemente (se si pensa che quella era "casa loro"), che la coscienza sporca della Nazione oggi racconta sì come vittime ma anche come incattiviti vendicatori dei torti subiti dagli avi, come nella bella serie Yellowstone (scritta da Taylor Sheridan) e anche nella meno nota Longmire, capaci quanto i "bianchi" di comportamenti disinvolti per proteggere i loro interessi, sentendosi per di più moralmente giustificati.
Ma questi conflitti risalgono alla notte dei tempi e ci è sembrato di cogliere maggiori possibili riferimenti alla nostra realtà nelle due serie di cui parlavamo all'inizio. Guardando le quali potremmo immedesimarci, come spesso avviene, nei più deboli, negli oppressi, nei calunniati e sofferenti. Finita però la finzione, nel mondo reale potremmo trovarci nella situazione opposta, ascoltando qualche talk o leggendo ansiogene news, ostili a chi viola i nostri confini, a chi "ci porta via il lavoro", a chi occupa i nostri marciapiedi, nella consueta lotta fra morti di fame che tanto comodo fa a tutte le forze politiche. Meditiamo pertanto, perché il bello della finzione, che sia libro, film o serie, è questo: mentre ci intrattiene, riesce a metterci nella posizione del vinto, dello schiavo, togliendoci l'illusione di essere vincitori o padroni (di essere insomma superiori, come ci solletica certa politica), facendoci così, almeno un poco, ragionare.