Remake e remastered: i rischi del ritorno al passato - articolo
Esiste un modo giusto per riportare in vita un capolavoro?
È inutile girarci intorno o fare lunghi preamboli: l'ottava generazione di console è stata caratterizzata da una straordinaria mole di ritorni eccellenti, fra videogiochi volenterosi di riesumare saghe ormai scomparse, svariati reboot delle serie più amate e tonnellate di versioni rimasterizzate.
Una scorciatoia per il successo? Si e no. Perché accanto ai grandi nomi, accanto al premio per il Game of the Year innalzato dal "nuovo" Kratos, allo straordinario remake di Resident Evil 2 e alla riproposizione in versione Royal del blasonato Persona 5, esistono numerosi titoli che non hanno rispettato le altissime aspettative del pubblico, che hanno mostrato una certa pigrizia, che spesso e volentieri hanno scatenato le ire degli appassionati.
Il motivo è presto spiegato: riportare in vita un grande classico ripulendone le sbavature è senza ombra di dubbio il metodo più semplice e veloce per battere cassa, secondo un sistema che si è più volte meritato l'etichetta di "operazione nostalgia". Perché, nella maggior parte dei casi, è più che sufficiente la semplice idea di gettarsi nel cuore dei ricordi per convincere il pubblico ad ampliare la propria libreria.
Anzitutto, vale la pena fare un po' di chiarezza sulla terminologia. La versione remastered non è altro che la pura e semplice riedizione di un'opera che mantiene intatta la maggior parte del codice, aggiornando le texture e le opzioni di risoluzione, spesso limitandosi a limare qualche piccola sbavatura tecnica. Il remake è una completa rilettura tecnica, ludica ed estetica di un'opera, un'effettiva proiezione nel futuro del titolo originale. Il reboot, invece, sottende l'azzeramento dell'intreccio e degli assiomi alla base di un brand al fine di percorrere una nuova strada ludica o narrativa.
Qual è il modo giusto per riportare in vita un'opera, per cambiarne drasticamente la direzione tecnica o per smussarne gli angoli in ottica della riedizione? Probabilmente, la risposta a questa domanda vale milioni di dollari.
Uno fra i primi grandi remake in linea con il significato contemporaneo del termine fu quello di Goldeneye 007 per Nintendo 64, reinterpretato su Wii in maniera a dir poco disastrosa. L'architettura originale di Rare prendeva una netta deviazione dagli stilemi dello sparatutto in prima persona, mentre il lavoro pubblicato da Activision riduceva il tutto ad un banale rip-off di Call of Duty, mancando di rispetto all'elemento quintessenziale di qualunque operazione remake: la fedeltà.
Ed è lo stesso valore dell'equazione che ha fatto la differenza nella percezione di Resident Evil 3 rispetto al remake dell'episodio precedente, un progetto che ha registrato un'accoglienza decisamente più fredda se paragonato all'avventura di Leon e Claire. A fronte dell'ineccepibile rilettura tecnica, i giocatori volevano rivivere le medesime sensazioni, visitare gli stessi luoghi, assaporare la profondità del world-building che da sempre caratterizza la serie, invece si sono dovuti confrontare con un gran numero di mancanze.
La golden rule risiede nel rispetto per l'opera originale, che non deve essere stravolta nel minimo comune denominatore, e che non dovrebbe essere né tagliata né tanto meno assottigliata per alcuna ragione. Eliminare segmenti di giocato e commettere errori nel procedimento d'individuazione dei punti focali può rivelarsi disastroso, ed è proprio per questo motivo che è estremamente difficile collocare Final Fantasy VII Remake.
L'ultimo lavoro di Square-Enix è un remake quasi perfetto, capace di mettere in scena uno splendido tributo al primo segmento della leggendaria epopea firmata Kitase e Nojima. Ma tutti i professionisti del settore si sono dimostrati concordi nell'attaccare più o meno velatamente le ultime sezioni di gioco, sezioni che per evidenti ragioni di spoiler non ci sentiamo di trattare nel dettaglio, ma che rischiano senza ombra di dubbio di danneggiare l'operazione nel lungo periodo.
Fedeltà assoluta o rispettosa rivisitazione? È giusto tentare di apportare miglioramenti o è meglio limitarsi alla semplice risoluzione dei problemi concreti? Ovviamente, il dilemma non si pone quando ci si trova di fronte a pacchetti da catapultare un ventennio nel futuro senza preoccuparsi dell'adattamento tecnico-narrativo. Shadow of the Colossus, ad esempio, era già un titolo vicino alla perfezione, ed il potenziamento visivo non poteva fare altro che giovargli. Lo stesso discorso vale per la N'Sane Trilogy di Crash Bandicoot, un eccellente scheletro sottoposto a un banale intervento di chirurgia estetica da Vicarious Visions.
Mettiamo per un attimo God of War sotto la lente di ingrandimento. L'opera di Santa Monica Studios non è effettivamente un remake né un reboot, ma ne condivide gran parte delle problematiche. Cory Barlog ha scelto di mantenere intatta la mitologia e la caratterizzazione di Kratos andando però a stravolgere tutti gli assiomi del brand, a partire dalla costruzione del mondo, passando per gameplay e combat system per arrivare infine alla sceneggiatura e alla regia.
Il risultato è un prodotto che si integra alla perfezione nel mosaico dedicato al dio della guerra, ma che lo fa ribaltando ciascun elemento tecnico e di genere, dipingendo un quadro contemporaneo e al tempo stesso capace di rendere onore alla leggenda di Kratos. Insomma, è ironico che sia stato un sequel diretto a fornirci il maggior numero di informazioni sull'identikit di una riproposizione moderna ma convincente, rivisitata eppure familiare.
Il che ci porta ad un concetto fondamentale per distinguere le riletture valide dalle operazioni mal riuscite, ovvero la necessità. I creatori di God of War avevano la necessità di aggiungere un profondo substrato narrativo alla loro creatura, oltre che di adattarne i sistemi all'epoca attuale. Era necessario per Square-Enix adottare una formula episodica per omaggiare ogni sfaccettatura di Final Fantasy VII? Alla luce del primo prodotto finito possiamo dire tranquillamente di sì. Era necessario, invece, mettere mano a una sceneggiatura ormai divenuta parte della leggenda? Non solo non era necessario, ma a nostro parere sarebbe folle solamente ipotizzarlo.
La verità è che i videogiochi invecchiano terribilmente, invecchiano molto più rapidamente rispetto a quanto fosse possibile preventivare nel corso delle prime generazioni, e spesso il divario tecnico si dimostra un limite invalicabile per tantissimi appassionati allergici al retrogaming. Numerosi sistemi di combattimento e altrettante interpretazioni grafiche non sono adatte al palato dei "nuovi" videogiocatori, e la scelta di ricamare i grandi classici secondo l'architettura contemporanea risulta quasi obbligata.
Detto ciò, l'ottava generazione ha insegnato che non è consentito stravolgere i contenuti e ridurre l'offerta ma solamente aggiungere elementi al calderone e, soprattutto, stare attenti a farlo solamente quando necessario. Se Capcom ha peccato di sufficienza nella riproposizione di Resident Evil 3, specialmente alla luce di quanto dimostrato attraverso il capitolo precedente, il team di Tetsuya Nomura si è invece macchiato di tracotanza, tentando maldestramente di migliorare un dipinto già impeccabile.
È delle scorse ore la notizia che il remake di Resident Evil 4 sarebbe già stato messo in cantiere dagli artigiani di Capcom. Si tratta di una decisione che non può far altro che preoccupare: da una parte non stiamo parlando di un titolo tanto arcaico da meritare una rilettura completa, tanto che il suo gameplay ha gettato le fondamenta delle operazioni più recenti, mentre dall'altra ci troviamo di fronte a un'opera che, subendo lo stesso trattamento riservato al terzo episodio, rischia di perder per strada buona parte del suo fascino.
A conti fatti, la realizzazione di una semplice versione remastered e la scelta apparentemente coraggiosa di percorrere la via del remake potrebbero sembrare gli strumenti più efficaci per effettuare operazioni sicure, economiche e leggere sul piano creativo.
Ma oltre il velo della nostalgia e oltre il desiderio viscerale di presentare a un pubblico nuovo la propria vecchia storia, si nascondono tantissime insidie, molte di più rispetto a quelle che segnano il cammino di una produzione originale. Nel caso di Sir Daniel Fortesque, ad esempio, è venuto fuori che le fondamenta non erano poi così solide come ricordassimo.
Nel processo di mediazione fra una pietra miliare e le sue nuove vesti è facilissimo sorvolare su un elemento essenziale, inserirne uno superfluo o mancare l'obiettivo. Ed è ancor più facile farsi fermare dalla paura, presentando progetti che non tentano neppure la complessa operazione di adattamento contemporaneo, lasciando che problematiche consolidate continuino ad affliggere l'opera, cosa che invece accade nella maggior parte delle noiose edizioni rimasterizzate.