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Richard Jewell - recensione

Clint Eastwood ci racconta la storia di un eroe che l'America non ha meritato.

Quanti eroi sconosciuti ci ha raccontato Clint Eastwood da quando ha cominciato a dirigere i suoi film, dopo anni a interpretarne tanti altri, sempre meno ricchi di sfumature dei suoi. Ogni tanto non ci siamo immedesimati completamente, altre volte ci siamo lasciati coinvolgere (ciascuno avrà il suo personale elenco, è chiaro), a seconda della diversa specie di personaggio.

Anche a Eastwood alcuni sono venuti meglio di altri, e ce li ha raccontati da "vero americano". E l'America da lui narrata sembra essere un posto dove si è abituati ad arrangiarsi da soli: da soli si cade e ci si rialza, da soli si raccolgono i frutti del proprio successo o si pagano le colpe degli errori, senza mai chiedere sostegno alla propria Nazione.

Che nel bisogno si comporta da matrigna indifferente eppure sempre esige di essere rispettata, difesa e amata. La cui indifferenza viene totalmente giustificata, anche quando la lontananza dai suoi "sudditi" è colpevole, quando non muove un dito in difesa dei bisognosi.

E può succedere che quando un umile cittadino, un comune uomo della strada, si trovi nella situazione di compiere un gesto altruista, un'azione che fa la differenza, diventando un "eroe", il Paese per il quale quel personaggio ha rischiato la vita tenga nei suoi confronti un atteggiamento a dir poco schizofrenico. Portandolo in un attimo sugli altari e, subito dopo, sbattendolo nella polvere, prima osannato e poi accusato.

Oggi a incrementare questa visione pessimistica, anche se oggettiva della società americana, si è aggiunto il comportamento agghiacciante dei mezzi di comunicazione. Non che sia una novità: "sbatti il mostro in prima pagina" è una strategia di comunicazione vecchia come il tempo, ma con l'aiuto di Internet è tutto più devastante e, alle lungaggini della giustizia ordinaria, si è aggiunto il tribunale dei social, che tiene un personaggio sulla graticola a vita.

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Forse sarà stato questo elemento a suscitare l'interesse di Eastwood per la storia vera di Richard Jewell, che è avvenuta nel lontano (mediaticamente parlando) 1996, durante le Olimpiadi di Atlanta.

Jewell, allora un bambinone che a 34 anni viveva ancora con la sua protettiva mamma, sovrappeso e un po' lento di comprendonio, era un vigilante della AT&T, addetto al controllo di un'area dove si svolgevano i concerti collegati alla manifestazione. Jewell aveva provato a fare il poliziotto, anche il vigilante, ma sempre con esiti negativi, perché troppo zelante e invasivo nel suo desiderio di "serve and protect".

Lui però voleva solo fare il suo lavoro il meglio possibile, ligio ai regolamenti e impermeabile al disprezzo della gente. La notte del 27 luglio scopre uno zaino abbandonato che lo insospettisce, riesce ad allertare la Polizia evitando così che l'esplosione, che comunque avviene, faccia molti più morti (ce n'è stato uno solo, con più di 100 feriti). Per un attimo, un breve attimo, l'omone è un eroe, incredulo che finalmente il mondo si sia accorto di lui.

Un grande terzetto di attori.

Ma quell'attenzione rapidamente diventa una messa sotto accusa perché FBI e mass media trovano comodo mettere lui sotto indagine, solamente in base a un supposto profilo psicologico, senza però un minimo reale indizio. Il circo mediatico, scatenato, fa il resto. Sull'orlo di restare maciullato dal Sistema, Jewell ricorre a un avvocato locale, un personaggio non convenzionale che prende le sue difese. Ma contro di lui ci sono davvero le forze del Male: il Governo e la stampa. Come la storia è finita si trova su Wikipedia, perché è tutto vero.

La sceneggiatura di Billy Ray, autore di film di altalenante appeal (State of Play, Hunger Games, Captain Phillips, Gemini Man e l'ultimo Terminator), e basata sull'articolo American Nightmare di Marie Brenner, viene messa in scena da Clint Eastwood con la solita sobrietà, in questo caso quasi documentaristica. L'escalation della persecuzione di Jewell è stringente e del tutto veritiera e l'FBI, nella sua ottusità, non ne esce bene: le indagini sembrano davvero roba da barzelletta.

Se però la vicenda riesce a toccare lo spettatore è grazie alla bravura degli interpreti. Lode a Eastwood per avere scelto come protagonista un attore come Paul Walter Hauser, probabilmente anche per la somiglianza con l'originale. Speriamo che Hauser inizi così a essere riconosciuto dal grande pubblico perché merita, pur relegato dalla sua fisicità a un numero ristretto di ruoli. Noi lo avevamo scoperto con la serie televisiva Kingdom, in un ruolo inquietante, per rivederlo poi in Tonya e BlacKkKlansman.

Olivia Wilde è la giornalista manipolatrice da cui nasce il presunto scandalo.

Grande il cast di contorno: Sam Rockwell è il meraviglioso avvocato, convinto dell'innocenza del suo patetico cliente difficile da difendere, perché essendo convinto della sacralità del sistema che aveva provato a servire tutta la vita, forniva all'FBI su un piatto d'argento gli elementi che sarebbero stati distorti contro di lui.

Jon Hamm è un antipatico agente federale (e gli viene benissimo), personaggio inventato, sintesi di tanti altri. Altrettanto antipatica è Olivia Wilde, giornalista d'assalto del giornale locale che fa scoppiare il caso, personaggio reale, oggi defunta. Negli USA ci sono state polemiche per come è stata ritratta e l'Atlanta Journal ha minacciato querele. Kathy Bates è l'adorabile mamma, ben conscia dei limiti del figlio.

Se ci sono rimandi all'attualità secondo noi si trovano qui, nella polemica con un sistema che procede a colpi di scandali, di news, che etichetta le persone, che crea una narrazione senza reali riscontri, alla ricerca solo della notizia con cui ottenere i suoi "click" ma disinteressato alla verità, alla logica, alla spiegazione. Mentre le autorità, adeguandosi ciecamente ai pregiudizi, adattano i fatti al presunto colpevole senza cercare quello vero.

Un'immagine del vero Jewell.

Non sembra che l'ottantanovenne Clint abbia dei personali sassolini nella scarpa da togliersi ma nella vita di cose ne avrà viste molte. E non sono semplici, come per i suoi primi eroi: non si risolve tutto facendo irruzione e sparando ai cattivi (e ogni tanto non è chiaro chi siano i buoni e chi i cattivi). È la vita, bellezza. Non resta che cavalcare da soli verso il tramonto, un giorno, lasciandosi però una bella eredità alle spalle. Cosa che Eastwood, con sobrietà e determinazione, ha senza dubbio saputo fare.