Rocketman - recensione
“He was only a piano player”.
Quant'è difficile la gestione della genialità, specie se sei un bambino prodigio, di famiglia piccolissimo-borghese, con un padre che ti osteggia ferocemente, una madre egoista e, per fortuna, una nonna che crede in te!
A raccontarci il pezzo più importante della vita di Reginald Kenneth Dwight, aka Elton John, è stato chiamato Dexter Fletcher, il regista che era subentrato a Bryan Singer in Bohemian Rapsody, trovando immaginiamo una narrazione già impostata.
Qui si può concedere un taglio probabilmente più personale, con un uso delle canzoni (e dei loro testi) che si fa narrativo, alla Baz Luhrmann, con numeri da musical che sottolineano, esaltano i passaggi della long and winding road di un artista universalmente noto, che fa parte della storia della musica pop per le sue canzoni e per i suoi eccessi. Sembra che certe vite artistiche siano favorite da un'infanzia infelice, da rifiuti, abbandoni, da mancanza di stima e amore. Che sono danni che daranno linfa alla creatività ma che prima o poi si presenteranno a chiedere il conto.
Fletcher ci mostra Elton nel momento in cui decide di andare in riabilitazione e, con un uso tradizionale di flashback, ci fa ripercorrere la sua vita. A partire dall'infanzia nella casetta di periferia, sempre respinto da un padre che non lo aveva voluto, mai difeso da una madre anaffettiva (Bryce Dallas Howard). Poi, grazie al supporto della nonna, gli studi di pianoforte all'Accademia e, ancora giovanissimo, i primi ingaggi nei locali e una breve gavetta sulla fine degli anni '60.
In questo modo incontra Bernie Taupin (Jamie Bell), l'autore dei testi che ha messo in musica per decenni, amico fedele di una vita. Poi i primi contratti per un tour americano, dove il successo esplode, mentre inizia la carrellata di splendide canzoni degli anni '70. Ma la vita privata non procede altrettanto positivamente, perché la sua gayezza Elton non la viveva serenamente.
L'incontro con John Reid (Richard Madden), suo amante e manager, personaggio discusso che in Bohemian Rapsody faceva una figura migliore, lo porterà inesorabilmente in una spirale autodistruttiva. Dividendolo fra quello che realmente era, un timido ragazzo bisognoso di stima e affetto, di quelle conferme che nessuno gli aveva dato, e il personaggio che si era costruito addosso, che però con tutte le piume, i lustrini, i tacchi, i cappelli, i parrucchini e gli occhiali (e l'alcol, il sesso e le droghe) lo stava soffocando. "Devi ammazzare quello che gli altri pensano tu sia, per riuscire a essere quello che veramente sei".
Visto che da sempre il genio si abbina alla sregolatezza, e mai una vita col bilancino è stata viatico a opere creative degne di nota, non c'era da aspettarsi chissà quale lettura rivoluzionaria nella messa in scena di un "mostro sacro" ancora ben vivente come Elton John, i cui scandali, le cui discese e risalite sono ben note a tutti. Del resto non è storia nuova: quale giovane e impreparato ragazzo non ha mai barcollato sotto il peso della fama, quando questa arriva massicciamente fra capo e collo, facendo perdere il senso della misura e dando l'illusione che durerà per sempre? Di film sulle vite di noti attori o cantanti, che si sono schiantati a causa del successo, ne abbiamo visti molti e pochi hanno avuto un happy ending.
Saranno contenti quelli che in Bohemian Rapsody lamentavano la troppa discrezione nel racconto dell'omosessualità del protagonista, che qui è ben dichiarata. La visione di Fletcher (su sceneggiatura di Lee Hall, autore di Billy Eliot) potrebbe scontrarsi con l'idea che lo spettatore si è fatto dell'artista, alla quale si ostina a restare aggrappato anche quando è l'artista stesso a negarla, nell'ostinazione a volere di più del già noto. Che obbligatoriamente deve essere stata sempre più perduta e tragica di quanto magari sia stata in realtà.
In fondo, come diceva Marilyn, "è sempre meglio piangere sui sedili di una Rolls che su quelli della metropolitana", e quindi non è il caso di impietosirsi, come spesso ci viene chiesto in modo un po' ricattatorio in questo genere di film. Ma Rocketman non è un banale biopic e, mentre si adegua alle regole del genere (e probabilmente alla supervisione dello stesso protagonista), nobilita una narrazione tradizionale con la messa in scena travolgente di un pugno di bellissime canzoni, con alcuni insoliti arrangiamenti, con invenzioni coreografiche originali e costumi clamorosi.
Semplicemente incredibile la prestazione di Taron Egerton, attore visto nei due Kingsman e nel reboot Robin Hood, che con poco trucco e molti travestimenti riesce a essere un Elton John credibile e toccante, cantando splendidamente le canzoni del film. Gli attori anglosassoni hanno davvero una marcia in più.
Piace, e molto, il finale celebrativo sulle note esplosive di I'm Still Standing, con l'elenco delle molte attività caritatevoli di un uomo che ce l'ha fatta, è caduto e si è rialzato più volte, e alla fine è rimasto in piedi, oppresso da gloria e miliardi, di successi e amori, di premi e onorificenze. Ma soprattutto autore di alcune canzoni da non liquidare mai come semplicemente pop, piccoli capolavori che ciascuno di noi conserva grato nel cuore, ricordando il momento in cui per la prima volta gli hanno parlato.