Lo "shadow firing" e i licenziamenti nei publisher - editoriale
“Non ha a che fare con le vostre performance, dobbiamo far quadrare i bilanci”.
Come molti di voi sapranno, nei giorni scorsi Activision Blizzard ha annunciato un taglio dell'8% del proprio personale, che ammonterebbe a circa 770 posti di lavoro.
È difficile commentare a mente lucida quando chi ha perso il lavoro sono persone che conosci personalmente e con cui hai lavorato, in special modo quando sai perfettamente che non hanno perso il lavoro per mancanza d'impegno o per degli errori commessi in ufficio.
Si è già parlato del fatto che i dipartimenti colpiti da questo round di licenziamenti sono stati principalmente Esports e Publishing, dipartimento in cui ho lavorato per 5 anni a Blizzard Entertainment.
Il motivo per cui mi duole parlare di questi licenziamenti non è perché delle persone hanno perso il proprio impiego, perché la volatilità della propria posizione è una cosa che tutti quelli che lavorano nel settore devono mettere in preventivo prima ancora di mandare il curriculum.
Fa male perché penso che ogni persona possa incassare solo un determinato numero di pugni prima di accusare il colpo, e ogni volta che vedo in atto dei licenziamenti sistematici di chi ha contribuito al successo di queste compagnie, è un giorno in cui appoggio virtualmente il ginocchio al tappeto del ring e riprendo fiato prima di rialzarmi.
E per farlo, mi farebbe piacere riuscire a farvi conoscere alcune delle persone che stanno vivendo questo incubo. Dietro a ogni posto di lavoro a Blizzard ci sono persone che hanno dedicato anni della propria vita per un ideale, più che per una compagnia.
Non è facile venire assunti in quel di Irvine. Coloro che ci riescono entrano a far parte di un gruppo d'élite di professionisti del settore a cui spesso vengono assegnati compiti che farebbero impallidire qualsiasi strategic planner. Seguire il lancio di un gioco come World of Warcraft o Overwatch non è qualcosa che ti insegnano all'università, e non c'è nessun corso di studi che possa prepararti al numero di emergenze e imprevisti che progetti del genere nascondono dietro ogni milestone di produzione.
Parliamo di persone estremamente competenti, motivate e indipendenti, che spesso si sono trasferite in California o negli uffici europei lasciando amici, famiglie e conoscenti per poter lavorare nell'azienda dei propri sogni. Accettano stipendi non sempre competitivi, orari di lavoro che non conoscono pause e periodi di crunch dove arrivi a vedere la tua famiglia un paio di volte al mese.
Togliere il lavoro a queste persone vuol dire andare a rimuovere uno dei pilastri della loro esistenza, qualcosa per cui hanno lavorato per anni, e leggere la gravità della loro situazione sui social media è quello che più mi ha colpito.
Eriberto Garcia Contreras, ex Product Manager delle leghe competitive collegiali di Overwatch con Master in Business Administration alla University of Southern California, non ha solo perso il lavoro, ma anche la possibilità di restare negli Stati Uniti. Ad oggi ha a disposizione 60 giorni per trovare un altro lavoro o verrà deportato.
Non ha avuto nessun preavviso, non aveva modo di pensare che avrebbe perso il lavoro stamattina: "Ero consapevole che i licenziamenti fossero molto comuni nell'industria videoludica, ma ho sempre pensato che l'essere una persona che ha sempre lavorato duramente, che ha ricevuto la giusta educazione e che si è sempre distinta come un'impiegata modello, mi avrebbe permesso di non essere mai una delle persone licenziate. Mi sbagliavo. Oggi è stato il mio ultimo giorno a Blizzard Entertainment."
Si esprime così Jennifer Mallett, una delle 770 persone circa che hanno appena perso il proprio lavoro nell'ultimo round di licenziamenti che ha colpito Activision Blizzard. Jennifer era ad Activision Blizzard dal 2013. Ha iniziato la sua carriera all'interno dell'azienda come stagista dell'assistenza clienti e ha saputo distinguersi nel corso degli anni fno ad arrivare ad essere la Brand Manager responsabile di World of Warcraft nel Nord America.
Sul suo profilo LinkedIn menziona i risultati ottenuti dalle ultime campagne marketing per Battle for Azeroth, che ha gestito direttamente: si parla di un incremento del 675% delle impression social media e del 600% sulle impression della stampa rispetto ai risultati di Legion.
Purtroppo però i risultati individuali al giorno d'oggi non sono più l'ago della bilancia quando si parla di chi perderà il lavoro e di chi sopravviverà fino al prossimo giro di licenziamenti. Questo perché nessuna delle persone coinvolte è stata licenziata per problemi di performance individuale. Cosa c'è di più deprimente del sapere di non alcun nessun impatto sul proprio futuro, nemmeno attraverso il proprio impegno e i propri risultati?
Il senso d'impotenza che ne deriva è soverchiante e non è un caso che molte delle persone che passano attraverso esperienze simili non ottengano più il livello di performance che avevano raggiunto, nemmeno in altre compagnie, fenomeno che porta anche a casi di depressione e stanchezza cronica.
Bisogna precisare che questi licenziamenti arrivano dopo l'annuncio contemporaneo del fatto che il 2018 di Activision Blizzard si è chiuso con un fatturato di circa 7,5 miliardi di dollari, un incremento del 7,1% rispetto al 2017. Cito testualmente Bobby Kotick, CEO dell'azienda: "I nostri risultati finanziari per il 2018 sono stati i migliori della nostra storia".
Vorrei inoltre far notare che, come avevo precedentemente menzionato in un altro articolo, questi licenziamenti non colpiscono quasi mai i top manager di queste aziende. È stato infatti annunciato che il nuovo CFO di Activision Blizzard, Dennis Durkin, ha ricevuto solo un mese fa 15 milioni di dollari come bonus per aver firmato con la compagnia, mentre Bobby Kotick stesso ha ricevuto 10 milioni di dollari come bonus annuale proprio in queste settimane.
È un copione già visto e che spesso viene messo in atto dietro le quinte, per non attirare troppa attenzione dalla stampa e dal pubblico. Lo si è visto già a dicembre, sempre in casa Blizzard, con i 100 dipendenti dell'assistenza clienti di Cork che hanno accettato un pacchetto monetario per dimettersi volontariamente.
Blizzard ha offerto per ben 5 volte questi pacchetti, alzando sempre di più l'offerta monetaria, per non dover ricorrere a dei licenziamenti diretti, come invece è appena successo. È lecito pensare che se non fossero arrivate almeno 100 adesioni a questo programma di dimissioni programmate, Blizzard avrebbe incluso anche Cork negli uffici colpiti dai licenziamenti odierni.
Ancora peggiore è la situazione negli uffici europei di Versailles, dove è di giovedì la notizia che delle circa 400 persone che lavorano nella sede francese di Blizzard, 134 posti sono a rischio. Ma mentre negli uffici californiani i tagli sono già stati effettuati, le leggi che regolamentano i licenziamenti in Francia vietano alle aziende di licenziare in tronco i propri dipendenti. Quello che si prospetta nel futuro di queste 134 persone sono settimane, probabilmente mesi, di negoziazioni con i sindacati.
Nel frattempo dovranno continuare ad andare in ufficio senza avere alcuna sicurezza sul proprio posto di lavoro, senza sapere se verranno o meno licenziate, e che tipo di paracadute finanziario riceveranno in caso di licenziamento. Non sanno nemmeno se la propria posizione potrà venire trasferita negli altri uffici europei di Blizzard a Cork (Irlanda) o L'Aia (Paesi Bassi). Non c'è nemmeno modo di sapere quanto tempo richiederanno queste negoziazioni. Inutile dire che il morale di tutto l'ufficio è sprofondato immediatamente dopo l'annuncio.
Sono molto suscettibile all'argomento perché sono sopravvissuto a tre ondate di licenziamenti, di cui una a Blizzard Entertainment nel 2012, e una a Riot Games nel 2017. I più attenti di voi staranno pensando: "Licenziamenti a Riot Games? Nel 2017? Non ho letto nessuna notizia in merito".
Avete ragione. Non ne avete sentito parlare, anzi, mi stupirei del contrario. Questo perché non sono stati mai annunciati al pubblico e sono stati effettuati in maniera tale da limitare il più possibile l'esposizione alla notizia. Nessuno ha scritto nulla in merito.
Io chiamo questa pratica lo "stealth firing", per le sue similitudini con lo "stealth banning" dai social media. Per darvi un'idea di come venga attuata, penso che il modo migliore sia raccontarvi come sono andate le cose a Riot Games nel 2017 (semplificherò il racconto perché non posso andare nei dettagli degli accordi).
All'epoca gestivo un team di community manager europei dedicati a League of Legends. Siamo stati tutti convocati in una sala riunioni, dove ci è stato detto che, a tutti gli effetti, tutti i posti di lavoro dei presenti, me escluso, erano stati dichiarati ridondanti.
Tutte le persone presenti all'annuncio si sono prodigate nell'evitare accuratamente l'utilizzo della parola "licenziamento", sia nelle comunicazioni verbali che in quelle scritte. Quello che è stato detto al mio team è che la loro posizione di lavoro era stata resa ridondante e che avevano 30 giorni di tempo per trovarsi un altro posto all'interno della compagnia.
Durante questi 30 giorni hanno avuto la possibilità di avvalersi di un pacchetto finanziario che includeva un numero variabile di mensilità pagate (solitamente più di 6 ), e spesso anche assistenza col trasloco per tornare in patria. Il tutto ovviamente in cambio della propria lettera di dimissioni e del non poter parlare in pubblico dell'accordo e dei suoi dettagli economici.
Invece di dover annunciare pubblicamente di aver licenziato decine di persone, tutto quello che è arrivato all'esterno sono un paio di post sui profili Facebook degli ex impiegati in cui dicono di "aver lasciato Riot Games" o di "essere in cerca di altre opportunità".
Sommato al fatto che molte persone del mio team erano dedicate esclusivamente a una community di una lingua specifica (erano tutti Community Manager), le possibilità che qualche giocatore fosse esposto a tutti i loro profili contemporaneamente, e che unisse i puntini collegando la strana ondata di dimissioni quasi contemporanee, era molto limitata.
È stata un'esperienza che mi ha segnato profondamente e che mi ha fatto cambiare radicalmente il modo di vedere le cose. Avevo vissuto gli altri due giri di licenziamenti da spettatore, forte del fatto che in entrambi i casi io e le persone con cui lavoravo direttamente non erano state coinvolte.
In questa invece ho avuto un posto in prima fila, ed è stato come se avessero strappato parte di me, perché erano i membri del MIO team. Un team che si stava amalgamando non senza difficoltà, e che sicuramente stava facendo e avrebbe continuato a contribuire alla comunicazione con i nostri giocatori, e che da un giorno all'altro ha semplicemente cessato di esistere.
Durante l'annuncio, quando la comunicazione ufficiale era terminata ed è stato dato spazio alle domande dei presenti, la prima domanda dal mio team è stata molto semplice.
"Why? Perché?"
"Non ha a che fare con le vostre performance, dobbiamo far quadrare i bilanci", è stato risposto. Nessun riferimento alle prestazioni individuali, nessun riferimento alla situazione economica di Riot Games, che non era certo a rischio fallimento.
È stata la seconda domanda quella che mi ha distrutto emotivamente: "Cosa possiamo fare in questo mese per permetterti di mandare avanti quello che stavamo facendo, senza danneggiare le nostre community?".
Non è qualcosa che ti aspetti di sentire da un team che ha appena saputo di aver perso il lavoro. Da professionisti che sono, il primo pensiero è andato ai loro giocatori e alle loro community. In quel momento mi sono reso conto che il mio lavoro di manager del team era arrivato alla sua conclusione e non avrei potuto essere più fiero di loro.
Qualcosa si è spezzato tra me e Riot Games quel giorno. Avevo ancora un lavoro ma ho capito in quel momento di avere una data di scadenza stampata addosso. Per le prime settimane ho anche dovuto continuare a lavorare in quello che era stato l'open space dedicato al mio team, e che era invece diventato uno spazio vuoto pieno di ricordi.
Sono stato successivamente spostato in un altro piano dell'edificio, ma non sono più riuscito ad andare al lavoro con la stessa passione e con il desiderio di restare a Riot Games per il resto della mia carriera.
Questo pattern di licenziamenti silenziosi si è ripetuto nel corso dell'anno in tutti gli uffici di Riot Games, dagli HQ di Santa Monica fino agli uffici asiatici. Nessun annuncio ufficiale, nessuna mail che annunciava tagli e licenziamenti. Solo persone che sparivano dagli strumenti di chat interni, mail che non ricevevano più risposta perché chi se ne occupava non era più in ufficio, interi team che cessavano di esistere senza che ci fossero conferma ufficiali dalla leadership. Questa ondata di tagli ha colpito team di sviluppo, artisti, disegnatori, modellatori 3D, community manager, customer support, in maniera molto metodica, poco alla volta, nazione per nazione.
Pochi mesi dopo mi sono dimesso e ho lasciato Riot Games, prima di diventare un altro numero per qualche manager che doveva far quadrare i bilanci di fine anno. Quando me ne sono andato, nell'ufficio europeo di Riot Games non c'era più nessuna persona che avesse esperienza di community management o contatto col pubblico.
La stessa azienda che annunciava di avere come obiettivo quello di essere "the most player focused game company in the world", aveva lasciato a casa tutti i propri community manager e la stragrande maggioranza del proprio personale dedicato al supporto giocatori, ovvero tutte le persone che avevano quotidianamente contatti diretti con il pubblico.
Questa dissonanza tra obiettivi annunciati orgogliosamente al pubblico e comportamento, era diventata insostenibile.
N.B.: La lettera di dimissioni l'ho firmata alla mia vecchia scrivania, in mezzo a quelle che erano le postazioni di lavoro del mio team, così come avevano fatto molti di loro.