Shadow of the Tomb Raider - recensione
Da Lara Croft a Tomb Raider… o quasi.
A volte noi redattori ci troviamo di fronte a titoli la cui valutazione diventa simile al risultato di un'equazione, vuoi perché il livello qualitativo è indiscutibile, vuoi perché innegabili carenze impattano l'esperienza di gioco. La conclusione della moderna trilogia dedicata a Lara Croft esula da questi archetipi e imbocca un cammino decisamente più complicato, un sentiero fatto di luci e ombre, di alti e bassi, di grandi contraddizioni e inaspettate armonie. Ve lo diciamo subito: Shadow of the Tomb Raider è il miglior capitolo del ciclo di rinascita della cacciatrice di tombe, e probabilmente dell'intera saga. Ma se, nonostante questa affermazione, state cogliendo una nota amara nelle nostre parole, avete fatto centro.
Sono passati cinque anni dal reboot capace di ridisegnare l'eroina più famosa della storia dei videogiochi, spazzando via la maturità e la freddezza per fare spazio all'umanità e al tema del viaggio di formazione. Quello della produzione Square-Enix era un obiettivo ambizioso che passava attraverso una grande sfida di caratterizzazione e che, soprattutto, necessitava di una struttura attuale e accattivante, di un gameplay al passo coi tempi e di un'offerta allineata agli standard generazionali.
In una corsa a due, Eidos Montreal e Crystal Dynamics si sono dimostrate all'altezza del retaggio di Lara, celebrando la moderna femminilità e ricamando l'esperienza attorno al nucleo di avventura dinamica open-map, riuscendo a schivare il pericoloso tranello del mondo aperto; ma ciò che ci ha veramente stupito è il modo in cui le software house sono state in grado di migliorarsi una release dopo l'altra.
Shadow of the Tomb Raider è innanzitutto questo: il frutto di un costante lavoro di rifinitura volto a limare gli spigoli di un immutabile e statico nucleo; se è vero che l'offerta base del titolo non è cambiata di una virgola, bisogna constatare come tutti gli elementi del gameplay abbiano ormai raggiunto un livello più che soddisfacente. Tornano le tombe ma sono di gran lunga più curate, ispirate e appaganti rispetto a quelle incontrate in passato; tornano le cripte ma questa volta si pongono sullo stesso livello delle loro sorelle maggiori; torna la componente action, accompagnata da un discreto numero di approcci al nemico e alle ambientazioni.
Dalle fasi subacquee, ormai protagoniste di intere sezioni, fino alle scalate, per le quali la corda è come manna dal cielo, muoversi tra fronde inestricabili e grotte claustrofobiche diventa un vero e proprio piacere. Anche l'occhio vuole la sua parte: la cura per il dettaglio grafico, già ottima nella realizzazione delle stoffe e dei capelli, riesce a dare il meglio di sé nelle fasi di azione più concitate e catastrofiche, momenti in cui sarebbe lecito aspettarsi un calo. La sensazione di appagamento visivo, sfiorata da qualche calo di frame-rate, è nostra compagna di viaggio fin dal cuore del Mar dei Caraibi, luogo in cui una piccola cittadina incontra la sua tragica fine.
Il sole è da poco tramontato al largo di Cozumel, mentre la festa per il Dia de Los Muertos infiamma vicoli costellati di turisti e mariachi. La dottoressa Croft si fa largo nei mercati folkloristici attraversando cimiteri illuminati da candele in una fase sostanzialmente passiva, aliena alla tradizione di Tomb Raider eppure azzeccata e pregna di dignità artistica. Sarebbe facile perdersi tra i dettagli del paesino ma Lara non si trova sull'isola delle rondini per acquistare souvenir: seguendo le tracce della Trinità, la giovane archeologa sfida il mare in tempesta per introdursi in un'antica rovina Maya. Vittima dell'ossessione ereditata dal padre, la ragazza si impadronisce di un pugnale cerimoniale e scatena inconsapevolmente le conseguenze di una profezia apocalittica.
Senza troppi convenevoli, Shadow of the Tomb Raider ci sbatte in faccia due elementi centrali dell'esperienza: in primis, quella tinta cupa che ci porta a camminare tra centinaia di vittime innocenti, in uno slalom tra cadaveri volto a inasprire gli effetti di quel folle gesto; in secundis, il conflitto interiore della protagonista che, schiacciata dal peso della responsabilità, affronta il viaggio verso il cuore della giungla peruviana costantemente sull'orlo del baratro, spaventata da sé stessa e determinata ad arginare i danni.
Ma è arrivato il momento di parlare dell'elefante nella stanza. Se questo capitolo conclusivo può contare su una cornice tecnica godibile, arricchita dagli innesti di sequenze sorprendenti, al centro della scena manca lo stesso livello di attenzione. Il soggetto e la sceneggiatura, in sostanza, non sono all'altezza della realizzazione estetica né dell'ambizione creativa: i dialoghi tra i protagonisti sono sconclusionati, a tratti fuori luogo, e una crisi di caratterizzazione colpisce quasi tutti i personaggi; da Jonah, onnipresente amico di Lara banale ed impalpabile, fino a Dominguez e Rourke, villain di turno che non si discostano minimamente dai cliché dei cattivoni tradizionali.
Neppure Lara riesce a salvarsi completamente. Complice la scelta di marketing che suggeriva l'imminente trasformazione nella "Tomb Raider" definitiva, ci aspettavamo un reale capitolo finale, una storia capace di evolvere il carattere della protagonista in qualcosa di nuovo e completo. Non invocavamo un ritorno al passato ma il raggiungimento di un punto fermo in previsione del futuro. Purtroppo, così non è stato. Anzi, la crescita è la grande assente nell'economia di un intreccio in cui la dottoressa Croft, ormai forgiata dal fuoco di mille battaglie, continua a soffrire il bipolarismo tra insicurezza e furia omicida, cadendo nelle stesse contraddizioni riscontrate fin dal 2013.
Certo, la profondità della trama non è mai stata il più grande punto di forza degli episodi successivi al reboot, ma nel caso specifico non possiamo esimerci dal criticarla. Perché sottolineare questa mancanza? Perché Shadow of the Tomb Raider aveva tutte le carte in regola per essere una grande opera sotto ogni punto di vista. Alcune fasi di gameplay sono a dir poco ispirate, e la cura per i dettagli emerge negli emozionanti flashback come nelle sequenze più dinamiche. Gli strumenti tecnici per far brillare la scrittura erano tutti lì, a portata di mano, ma purtroppo è mancata la sostanza.
Sia chiaro: Shadow of the Tomb Raider rimane un signor gioco ma è un risultato raggiunto prevalentemente attraverso una cornice radicata nella serie. Le ambientazioni sono caratterizzate con una cura invidiabile e continuano a rappresentare il sogno proibito di ogni achievement hunter, tra fasi esplorative raramente noiose ed enigmi che senza alcun dubbio toccano l'apice della saga. I sentieri della rigogliosa giungla tropicale conducono nel cuore di cenote trasformati in fonti cristalline, circondati di grotte che ospitano velieri spagnoli e templi dedicati a sanguinarie divinità precolombiane.
Non troviamo innovazioni trascendentali ma l'offerta "core", quella che delinea i confini del genere, è cresciuta esponenzialmente nel corso degli ultimi cinque anni. Gli hub di gioco prendono vita al passaggio di Lara, e la gestione degli effetti sonori contribuisce alla realizzazione di un'atmosfera convincente, dai momenti in cui le scimmie si agitano tra le fronde degli alberi fino alle passeggiate tra i quartieri dell'immacolata città di Paititi. Ogni collezionabile dissotterra strati di storia sepolti tra le rovine, facendoci oltrepassare l'impatto visivo delle ziqqurat illuminate nell'oscurità; se la stessa cura di cui sono intrise le ambientazioni fosse stata riposta anche nella scrittura, il numerino in fondo a questa recensione sarebbe senz'altro più alto.
Ciò che invece è effettivamente inattaccabile è il lavoro di game design dedicato a tombe sfida e cripte opzionali. In fondo, sappiamo tutti che queste fasi di gameplay sono il vero collante dell'avventura archeologica, luoghi in cui ogni giocatore si getta a capofitto non appena ne annusa la presenza sulla mappa. Che dire, la profondità degli enigmi ha subito un'evoluzione importante, specialmente se affrontati senza agevolazioni di sorta. Tra pozzi petroliferi in fiamme e antichi acquedotti Inca, questi bellissimi scrigni tridimensionali racchiudono la vera anima di Tomb Raider, celebrando egregiamente i tempi che furono. Sono scorci mozzafiato in cui mettersi alla prova ammirando panorami, fra violenti marchingegni e misteriose creature celate tra cunicoli labirintici.
L'intero apparato ludico può contare sull'interessante apporto del selettore di difficoltà dedicato all'esplorazione: portandola al massimo scompaiono tutti gli aiuti visivi e le texture che segnalano le pareti scalabili. Consigliata ai giocatori più esperti e pazienti, questa feature può regalare un sapore inedito al gameplay e rendere più cinematografiche le fasi di platforming, quasi modificando la natura stessa dell'opera.
Nonostante la grande attenzione riservata all'offerta opzionale, le tombe legate alla trama e le fasi d'azione più coinvolgenti sono state capaci di emozionarci nel connubio tra sequenze al cardiopalma ed episodi dall'elevato tasso di claustrofobia. Anche l'approccio al combattimento, presente quasi esclusivamente nel corso della quest principale (problema arginato dalla modalità Nuovo Gioco +), ha beneficiato di un buon lavoro di svecchiamento: l'intelligenza artificiale tenta di aggirare una Lara che è a tutti gli effetti il predatore alfa della giungla, e che non esita a coprirsi di fango per diventare invisibile poco prima di affondare la sua lama nella giugulare dei soldati.
L'arsenale di Miss Croft si arricchisce di numerosi elementi pescati dal nuovo setting, da pericolosi veleni allucinogeni fino a una serie di costumi che hanno un poderoso impatto sul gameplay; ad esempio possiamo accedere ad alcune aree della mappa solamente indossando alcuni travestimenti, e le fazioni si rifiutano di dialogare con Lara se la ragazza non sfoggia il loro abbigliamento tribale. L'arco rimane imperatore indiscusso degli strumenti a nostra disposizione e, nonostante l'inserimento di armi da fuoco uniche, è sufficiente scoccare qualche freccia per farsi largo tra le orde di avversari, sparando qualche bordata di fucile a pompa nelle situazioni più calde.
Se aggiungiamo un sistema di progressione che, finalmente, premia il giocatore in seguito al completamento delle attività opzionali con equipaggiamenti utili e abilità permanenti, otteniamo un quadro che difficilmente potrebbe tradire le aspettative dei fan. E, in effetti, non le tradisce assolutamente: l'ambientazione precolombiana, il design delle mappe, la coerenza storica e le meccaniche di gioco lucidano il fulcro dell'esperienza, innalzando il livello della produzione oltre qualsiasi istanza passata.
Di fatto, Shadow of the Tomb Raider è un titolo ottimo in sé e per sé, ma assume un retrogusto amaro quando si pensa alle potenzialità dell'offerta narrativa. Non ci ha delusi assolutamente per ciò che è, ma piuttosto per ciò che avrebbe potuto essere. Ed è questo il segreto dietro alla schizofrenia dell'analisi recensiva: numerosi elementi della produzione sono cresciuti, facendo sfigurare quei pochi rimasti indietro. La mole di attività, la componente scenografica e il dettaglio estetico si scontrano inevitabilmente con il peso del nome Tomb Raider e con la necessità di puntare maggiormente sull'identità di Lara Croft.
Siamo giunti ad un capitolo importante dell'annosa battaglia tra la nostra eroina e Nathan Drake, perché la cacciatrice di tombe ha dimostrato che, sulla carta, è possibile proporre contemporaneamente una componente esplorativa duratura e una main quest dal taglio grafico autoriale; fortunatamente per il suo rivale, questa volta Miss Croft lo ha colpito solo di striscio. Jason Dozois e Heath Smith, Narrative Director e Lead Game Designer, ci avevano parlato della volontà di non costruire un'opera circolare che tornasse al 1996, ma la verità è che ci siamo trovati di fronte all'epilogo di una trilogia piuttosto statica.
In conclusione, ci sentiamo di ribadirlo, Shadow of the Tomb Raider è il miglior episodio della moderna epopea di Lara, e senza dubbio rappresenta il benchmark stilistico per le future iterazioni della saga. Senza rivoluzioni, gli sviluppatori hanno applicato l'antica e fortunata filosofia del "bigger and better", realizzando un'avventura godibile, appagante e dal buon livello di sfida.
Si tratta di una scatola colma di paesaggi mozzafiato, sequenze ad alta tensione e ore di intrattenimento da vivere a mente leggera, ed è a pochi passi dall'essere una produzione eccellente. Tuttavia, l'attuale generazione ci ha insegnato che dalle saghe iconiche cui viene data nuova linfa vitale, ci si può aspettare sempre qualcosa in più.