Space Jam: A New Legacy - recensione
“Non si diventa grandi senza impegno”.
I Believe i Can Fly. E a crederci nel 1996 era Michael Jordan che nella vita ha davvero volato infinte volte sul parquet dei campi di basket. E il film era Space Jam, riuscito e per i tempi originale mix fra live action e animazione (oggi tecnicamente il tempo si fa notare), in cui i Looney Tunes interagivano con attori famosi come Bill Murray e campioni dell'NBA fra cui appunto Michael Jordan, appena rientrati nei Chicago Bulls, dopo la parentesi che si era concesso sui campi di baseball.
Sentivamo la necessità di un sequel, per di più 25 anni dopo? Sinceramente con ci passava proprio per la testa, ma adesso ce lo ritroviamo davanti e il risultato non è poi così terribile (anche se in occasioni come queste ci vengono sempre in mente le conversazioni fra gli sceneggiatori in The Players di Robert Altman, capolavoro che ogni cinefilo dovrebbe sapere a memoria).
Per scalare le vette del successo ci vuole dedizione totale. Per questo nel prologo un giovanissimo LeBron getta nella spazzatura un vecchio Game Boy che ha appena ricevuto da un compagno più ricco, perché gli viene spiegato chiaramente che solo impegnandosi e sacrificando ogni distrazione esterna si può arrivare al top. Lo ritroviamo adulto e super-famoso, con bella famiglia molto amata. Ma è diventato un padre severo che vuole applicare sul secondo figlio Dom la disciplina che si è imposto lui stesso.
I tempi però sono cambiati, Dom è diverso, la situazione famigliare pure. Il ragazzo non ha interesse per il basket, lui ha sviluppato da solo un geniale videogame e vorrebbe partecipare a un Game Design invece che a un campo di allenamento. Ma il padre si impunta, non lo lascia essere se stesso. Mentre si consuma il loro dissidio, facciamo la conoscenza di un algoritmo ribelle, che si sente bloccato dentro il Serververse e soffre di mancanza di gratificazioni. Si è ribattezzato Al J. Rhythm e medita vendetta.
L'occasione si presenta con il lancio di una nuova tecnologia della Warner, per la scansione dei personaggi da videogame. Al irretisce il figlio di LeBron, con le solite promesse stile il Gatto e la Volpe, e in questo modo riesce a impadronirsi del suo cellulare, dove il ragazzo ha scansionato i colleghi più forti del padre, riuscendo a formare così una squadra virtuale fortissima, che subisce pure un upgrade assai scorretto. Con la quale intende sfidare lo scettico LeBron, trascinandolo nel suo mondo virtuale e costringendolo a giocare (e ovviamente a perdere).
Perché l'algoritmo se la vada a prendere proprio con la Famiglia James non è chiarissimo, un po' è casuale, un po' si forma una specie di alleanza fra due sottostimati. LeBron finisce catapultato sul pianeta dei Looney Tunes, dove dovrà fare squadra con i giocatori più improbabili di sempre (come era capitato nel primo film a Jordan). Questa parte è realizzata in normale animazione "piatta", in cui anche LeBron diventa un cartone animato, mentre segue Bugs Bunny nella ricerca del suo gruppo di amici dispersi in diversi pianeti.
Il che offre l'occasione per mettere in scena un viaggio attraverso molto mondi Warner, dall'Universo DC a quello di Harry Potter, supereroi vari compresi, senza dimenticare i mondi HBO, come Game of Thrones, "panorami" storici come Casablanca, per arrivare ai recenti Rick & Morty, passando attraverso Matrix, Austin Powers e pure Wonder Woman, con Bip Bib e Coyote inseriti nei fotogrammi di Mad Max. Durante il match finale si dovrebbe fare fermo immagine sul pubblico per individuare tutti i personaggi Warner presenti.
Nella partita conclusiva troviamo invece attori in carne ed ossa e personaggi in CG "corposa" (in 3D). La partita sarà dura anche perché scorretta e impari. Ma soprattutto perché tutti cercano di giocare come LeBron, di essere come LeBron. Se però cerchi di vincere essendo qualcun altro, perderai (messaggio, messaggio!). Come non trovarsi d'accordo, ma si tratta di quelle solite "pubblicità ingannevoli", perché in caso di fallimento inducono a colpevolizzare solo se stessi, mentre sappiamo che nella vita vincere essendo se stessi non è mai facile, è tutto un adeguarsi, mitigare, smussare, calcolare, costruire.
E chi dice il contrario o è uno dei fortunati (ma pochi) o un gran bugiardo. Resta che pur sfruttando una struttura abusata e facendo leva su un messaggio scontato, nonostante tutto Space Jam: A New Legacy è un film godibile, soprattutto nello sfruttare mondi e personaggi del Warner/HBO Universe, non solo branding come si è accusato, ma vero fan-service, in un gioco di rimandi che diventa un virtuoso circolo creativo usato con humor.
Come attore il campione se la cava dignitosamente, affiancato dal ragazzino Cedric Jones, mentre Don Cheedle è il perfido Al, ultima personificazione di una A.I. maligna che non poteva che chiamarsi come il mitico computer di 2001 Odissea nello spazio. Cameo spassoso dell'attore Michael B. Jordan, dove quella B fa la differenza. L'ormai diva Zendaya dà voce a Lola Bunny, volitiva coniglietta. Nel doppiaggio, qualche cestista italiano presta la voce ai colleghi americani, ma uno ha avuto in sorte Fedez. Un DJ e un giornalista di Sky Sport doppiano i due commentatori originali.
La battuta più significativa del film, secondo noi, è però "come vinciamo contro chi controlla il gioco?". Come possiamo infatti pensare di misurarci contro un mondo di più forti, che ci impediscono ancora e ancora di andare a canestro, cambiando le regole durante il gioco, perché loro possono e quindi non si può nemmeno accusarli di barare? Su questo ci sarebbe da discutere, in ambito ben più serio di quanto si prefigga il film, per quanto LeBron abbia dimostrato più volte di ambire ad essere ben più che una figurina sportiva. Ma nell'economia del film non conta molto, è chiaro che il messaggio sentimentale è sempre ben più forte di quello "politico".