Skip to main content

Steam è nell'occhio del ciclone - editoriale

Gli effetti della rivoluzione nel mercato digitale.

Era il 2002: i negozi di software ospitavano sugli scaffali le confezioni dei grandi RPG, impreziosite da spettacolari artwork immaginati per catturare l'attenzione degli acquirenti, ancora affezionati al mercato retail. Ma era un titolo in particolare a monopolizzare il tempo libero dei gamer, un'esperienza nata e cresciuta di pari passo con le funzionalità legate al gioco in rete: Counter-Strike di Valve, lo sparatutto competitivo nato dallo scheletro di Half-Life, si stava dimostrando una vera e propria benedizione per la piccola società dello stato di Washington. Il prodotto, a causa della sua stessa natura, necessitava del rilascio di numerose patch di bilanciamento, e fu proprio questo fattore a spingere Valve Corporation verso un'acuta riflessione.

Non sarebbe stato più comodo, tanto per gli sviluppatori quanto per i giocatori, disporre di una piattaforma proprietaria per aggiornare automaticamente i titoli? Una sovrastruttura simile, se costruita per proteggere l'opera intellettuale tramite Digital Rights Management, avrebbe senza dubbio difeso l'industry, oltre a consentire lo sfruttamento delle nuove infrastrutture web per superare il mercato tradizionale. E fu così che, l'11 settembre del 2003, Steam si affacciò sul mondo della distribuzione, forte di tutta l'ambizione che portò Valve, nel giro di un decennio, a diventare un colosso da 3 miliardi e mezzo di fatturato.

Oggi, tutti conosciamo la natura della piattaforma: oltre alla distribuzione digitale, offre servizi di social networking, di matchmaking, di cloud saving, di DRM e di comunicazione. Oggi, qualsiasi videogiocatore PC nel mondo, ogni volta che avvia il suo hardware, si trova di fronte alla celebre icona dalle tinte blu, e sbircia con timore la pagina che elenca tutti gli acquisti effettuati dal momento dell'installazione. Oggi più che mai, tuttavia, Valve Corporation si trova a dover fronteggiare quello che appare come un assalto premeditato, guidato tra alcuni dei più agguerriti player dell'industry e diretto al cuore della sua egemonia.

Gabe Newell è stato un grande developer ed è tutt'ora un grandissimo CEO. Tuttavia, alcune sue analisi si sono dimostrate errate: aveva bollato come disastroso Xbox Live, e ora si trova a fronteggiare l'offerta di Epic, ispirata al servizio di Microsoft.

Rispondiamo immediatamente alla domanda più importante; Steam potrebbe ragionevolmente essere soppiantato? Si tratta di un'eventualità quasi impossibile: decine di milioni di videogiocatori possiedono l'80% del proprio portafoglio titoli nella cornice della piattaforma di Gabe Newell, senza contare che i soli DotA 2 e Counter-Strike restano stabilmente in vetta a qualsiasi metrica legata al numero di utenti online, oltre ad essere gli assoluti centri nevralgici dell'universo Esportivo. Ormai, la macchina a vapore di Valve è una quercia secolare estremamente radicata; quello che ci interessa trattare, infatti, sono i possibili effetti delle azioni perpetrate dai competitor.

Ovviamente, la compagnia del beneamato Gabe non ha sempre navigato in acque tranquille, e resta tutt'ora un gigantesco bersaglio quotidianamente preda di pesanti critiche. Sono passati 35 anni dalla disastrosa crisi che, nel 1983, portò all'apparente collasso del mercato dei videogiochi a causa della saturazione provocata dalle migliaia di titoli low effort-low quality, nati esclusivamente dalla volontà di realizzare un facile guadagno. Ed è proprio la questione che ha spinto, in tempi moderni, verso la nascita di Steam Greenlight, dimostratosi tutt'ora incapace di impedire la proliferazione di produzioni early access al limite dello scam, oltre che di opere che mal si sposano con ciò che potremmo definire "buon sviluppo".

Le fondamenta di qualsiasi store digitale, a prescindere dalle dimensioni e dalla qualità, risiedono però nel meccanismo del revenue sharing, ovvero la determinazione della percentuale dovuta al distributore e di quella destinata alla software house. Steam, fino a poche settimane fa, adottava una divisione del 70/30, intascando il 30% dei proventi generati da ogni prodotto. Ed è stata proprio questa linea contrattuale a spingere publisher come Activision, Blizzard, Electronic Arts, Bethesda ed Epic lontano dalle coste di casa Valve.

Per rispondere alle prime avvisaglie della crisi, la corporazione ha recentemente annunciato nuovi tier di revenue sharing che, sulla base delle vendite, andrebbero ad aumentare la percentuale destinata agli sviluppatori fino a un massimo dell'80%. Si tratta, tuttavia, di una misura prevista unicamente nella remota eventualità in cui il prodotto dovesse superare i 50 milioni di dollari di incassi.

Epic Games è ormai un publisher al limite della mitologia. Il fenomeno Fortnite, checché se ne dica, ha polverizzato qualsiasi record mai registrato dall'industry e, da solo, ha trainato la società ai vertici del mercato.

Se da una parte questa decisione mirava chiaramente a riconquistare l'attenzione dei grandi publisher, dall'altra è stata percepita come un gigantesco dito medio rivolto ai piccoli sviluppatori e alle case indipendenti, anche perché, dando un'occhiata alla storia finanziaria di Steam, appare evidente come la piattaforma potrebbe tranquillamente permettersi di richiedere a tutti una quota "flat" del 20%.

Alla fine della fiera, i mercati hanno recepito l'operazione come una sorta di pubblica sottomissione al potere economico dei big dell'industria, a discapito degli studi indie. Insomma: secondo gli analisti, Steam avrebbe iniziato a mostrare il fianco e, di fatto, i predatori si sono immediatamente dimostrati assetati di sangue. Su tutti spicca Epic Games, che con il suo Epic Games Store ha sfidato Valve a viso aperto e muso duro, andando a rigirare la lama proprio nei punti dove fa più male.

Revenue sharing per tutti all'88%, nessuna quota da pagare in caso di sviluppo su Unreal Engine (tradizionalmente fissata al 5%) e una serie di incentivi per i giocatori, come ad esempio la concessione di due titoli gratuiti su base mensile, lezione appresa dal fiorente mercato console. La scalata è partita alla grande: oltre ai titoli proprietari, il negozio ha portato sotto la sua ala prodotti di studi come Annapurna Interactive, THQ Nordic, Team Meat, Supergiant Games, Unknown Worlds e tanti altri, sottraendo addirittura Satisfactory dalle pagine dello Steam Store.

La quota fissa ha le potenzialità per catalizzare l'attenzione delle piccole e medie software house e, ovviamente, non bisogna dimenticare l'incalcolabile spinta ricevuta da Fortnite, ormai titano incontrastato del medium videoludico con i suoi 200 milioni di utenti registrati, dato risalente allo scorso novembre; un numero che, solo a leggerlo, mette paura: si tratta praticamente del doppio rispetto ad un'ipotetica somma delle vendite retail di Xbox One e PS4.

Battle.net, fino allo scorso anno, giocava in un campionato a sé stante, ospitando solamente i prodotti di Blizzard Entertainment. Con Destiny 2 e COD: Black Ops IIII, la storia è cambiata per sempre.

In sostanza, Epic Games Store non si può considerare come un semplice nuovo player nel mercato, giovane ed inesperto, ma va trattato come un gigante a tutti gli effetti, una piattaforma in grado di inserirsi fin dal giorno zero tra i gradini più alti delle infrastrutture digitali e, soprattutto, capace di emergere come vetrina per il mercato indipendente, strappando l'ultima caratteristica esclusiva dalle grinfie del software di Valve. C'è solo un altro piccolo problema per Steam: Epic non è assolutamente l'unico avversario dal quale deve guardarsi le spalle.

Verso la fine del 2017, infatti, fece discutere la scelta di inserire Destiny 2 all'interno del catalogo di Battle.net, lo store proprietario di Activision Blizzard. Mai prima di allora un titolo realizzato al di fuori delle mura della casa di Irvine aveva varcato quel confine, posizionandosi accanto all'esercito di giocatori cresciuti attorno a Warcraft, Diablo, Starcraft e i nuovi Overwatch ed Hearthstone.

Un'operazione poi culminata nel lancio di Call of Duty: Black Ops IIII su PC, anch'esso distribuito secondo lo stesso sistema; nonostante le ultime due produzioni Activision abbiano ottenuto risultati economici al di sotto delle aspettative, una simile tendenza è piuttosto preoccupante: cosa succederebbe se questo iter di pubblicazione dovesse estendersi all'intero parco titoli della società?

Lo store proprietario è una caratteristica che sta iniziando a fare gola a molti, come dimostrato dalla rifondazione di EA Store in Origin, ormai piattaforma predefinita per i prodotti Electronic Arts. Tralasciando facili richiami agli avvenimenti degli ultimi giorni, non bisogna dimenticare che persino Bethesda ha iniziato a sfruttare il meccanismo dell'esclusività per il suo Launcher, già culla di Fallout 76 e ora unica opzione disponibile per il prossimo Rage 2.

L'unica, grande mosca bianca rimane una Ubisoft che, nonostante lo sviluppo di un'iniziativa simile, continua a distribuire le sue produzioni in grembo a Valve. Chi sarà, dunque, il prossimo? Square-Enix, seppur al momento ferma sul mercato, durante il lancio di Final Fantasy XI si appoggiò a PlayOnline, e tutt'ora gestisce in modo indipendente e autonomo le funzionalità di FFXIV: A Realm Reborn, nonostante il software continui a fare presenza tra le pagine del negozio di Steam.

È di questa settimana la notizia che Rage 2 sarà il secondo titolo di Bethesda a fare compagnia a Fallout 76, essendo disponibile per gli utenti PC unicamente attraverso il Bethesda Launcher.

Esaurite tutte queste considerazioni, bisogna tenere a mente un ultimo, importantissimo tassello del puzzle, o meglio, un'intera regione. La Cina, infatti, si è rivelata un'incredibile fonte di guadagno nel corso degli ultimi anni, nonostante quelle oscure regolamentazioni locali che spesso tarpano le ali ai player penetrati nel territorio.

Ed è un'eventualità che si è verificata anche nel corso del primo tentativo di ingresso di Steam che, nonostante una partnership con Perfect World, ha dovuto necessariamente adeguarsi alla normativa in essere, poco dopo aver vissuto il blocco di gran parte delle sue feature social. Un problema, questo, che ha solo scalfito publisher come Blizzard Entertainment, ormai da tempo in buoni rapporti con le autorità di Pechino.

A dispetto degli stimati 30 milioni di utenti cinesi interessati al prodotto di Valve, i titani del mercato orientale non accetteranno certo di buon grado l'invasione da parte di un competitor straniero. L'anno scorso, infatti, Tencent ha ribrandizzato la sua piattaforma di distribuzione digitale sotto il marchio WeGame e, forte dell'immensa user base di League of Legends, è arrivata ad assumere proporzioni quasi monopolistiche, poco prima di essere riportata con i piedi per terra dalle autorità governative. Non bisogna dimenticare, tuttavia, che Tencent resta in pianta stabile una tra le prime 15 multinazionali al mondo, e non stiamo parlando solamente del medium del videogioco.

Insomma: l'apparentemente innocua piattaforma di distribuzione costruita mattone su mattone da Valve Corporation all'inizio del nuovo millennio è arrivata in una posizione di tale importanza da farsi numerosi nemici disseminati per i cinque continenti. Cosa accadrà in futuro? L'ipotesi più accreditata vuole la formazione di un nuovo mercato digitale, questa volta decisamente più frammentato rispetto al passato.

Tencent è la prova vivente della straordinaria potenza del mercato cinese. Il pubblico orientale ha un tale impatto da cambiare completamente le regole del gioco, come dimostrato dallo stesso annuncio di Diablo: Immortal.

Se da un lato un simile esito potrebbe tradursi in un miglioramento delle condizioni di servizio tanto per gli sviluppatori quanto per gli utenti, d'altra parte bisogna considerare l'incalcolabile peso degli ultimi 15 anni di investimenti, che hanno visto gli sforzi dei consumatori concentrarsi quasi esclusivamente nel parco titoli offerto da Valve Corporation.

Proprio per questo motivo, quella di un esodo in massa da Steam rimane un'ipotesi utopistica. Dal canto nostro, piuttosto che trovarci all'interno di un singolo e confusionario scatolone, non possiamo che desiderare quella frammentazione del mercato che, tradizionalmente, porta ad una rivalutazione del concetto stesso di qualità, un po' come accaduto nel settore delle serie televisive. Netflix, HBO, Sky e tutte le altre, infatti, tendono sempre più spesso a realizzare prodotti di bandiera allo scopo di vendere l'intero pacchetto.

Possibile che, alla stregua di Game of Thrones, Valve sarà costretta a riaprire i battenti di un Half-Life 3 qualsiasi per rilanciare la totalità della sua offerta? E a quel punto, quale sarà la risposta della concorrenza? Abbiamo assistito in prima persona all'impatto di simili meccaniche di marketing: nell'ecosistema console, infatti, l'esclusività ha portato alla produzione di alcuni tra i più grandi capolavori del medium, e si è addirittura dimostrata in grado di trainare, o affondare, interi hardware. Comunque vadano le cose, alla nascita di una nuova situazione concorrenziale corrisponde un tangibile balzo qualitativo, e chi ci guadagna, solitamente, sono proprio i consumatori.

Avatar di Lorenzo Mancosu
Lorenzo Mancosu: Cresciuto a pane, cultura nerd e videogiochi, i suoi primi ricordi d'infanzia sono tutti legati al Super Nintendo. Dopo aver lavorato dentro e fuori dall'industry, è finalmente riuscito ad allontanarsi dalle scartoffie legali e mettere la sua penna al servizio di Eurogamer.it.
Related topics
PC

Sign in and unlock a world of features

Get access to commenting, newsletters, and more!