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Stifled - recensione

Nel buio, purtroppo, qualcuno vi sentirà urlare.

Arroccarsi attorno ad un concept intrigante e originale, ma al tempo stesso limitato e limitante, è sempre un rischio. Decine e decine di giochi prima di Stifled hanno battuto questo impervio sentiero, sorretti e sostenuti da un'unica, geniale idea, ma fallendo miseramente a causa di gameplay sterili ed esperienze di gioco asfissianti e poco profonde.

Non sorprende più tanto, insomma, il trovarsi di fronte un walking simulator dalle tinte horror, ravviato qua e là da qualche enigma, interessantissimo sulle prime, ripetitivo e fiacco una volta fatta la conoscenza delle poche meccaniche ludiche che alimentano l'avventura.

Anche in Stifled, come in ogni walking simulator che si rispetti, la trama si dipana lentamente, facendo totalmente a meno delle scene d'intermezzo.

Il problema è prima di tutto narrativo. Manca una coerenza di fondo, l'espediente che giustifichi l'handicap con cui il videogiocatore dovrà fare i conti per tutta la durata del gioco. Il protagonista, difatti, non vede come una persona normale. Grazie a poteri simili a quelli di Daredevil, l'anonimo personaggio costruisce una mappa del mondo che lo circonda grazie alle onde sonore, ad una sorta di sonar mentale con cui disegna e dipinge i contorni degli oggetti, delle strutture, dell'ambientazione in cui si muove e che voi vedrete contando sulla visuale in prima persona.

Il meccanismo non è chiaro sin da subito, tanto più che inizialmente ci si ritrova a vagare per le stanze di una casa qualsiasi, chiedendocisi perché, quella che sembra essere nostra moglie, non abbia affatto voglia di rivolgerci la parola. Non c'è l'imperscrutabilità di un Ether One, né la chiarezza, a tratti disarmante, di Everybody's Gone to the Rapture. Stifled si posiziona in una via di mezzo tra i due estremi appena citati, giocando con il simbolismo, con la metafora, permettendo a chiunque, con un minimo di ragionamento, di capire a cosa alluda l'intera vicenda che, naturalmente, si prefigura come una sorta di viaggio spirituale nelle paure e nel senso di colpa che attanaglia il protagonista.

Almeno all'inizio, in ogni caso, si resta spiazzati davanti ad uno scenario che tende ad essere inghiottito costantemente da una fitta e impenetrabile nebbia. Indossato il PlayStation VR, ci si mette qualche secondo prima di capire che solo parlando, soffiando, canticchiando nel microfono ci si può far strada nell'ambientazione che, come per magia, riappare ogniqualvolta le onde sonore colpiscono superfici e oggetti che la compongono.

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Si tratta di un breve attimo, un prologo utile a introdurre le basi di un arco narrativo che, pur sviluppando con tutti i crismi il dramma e la tragedia che ha investito questa coppia di giovani un tempo innamorati, non spiega mai il motivo per cui l'avatar vede e percepisce il mondo in questo modo.

Un improvviso cambio di scena, vi traghetterà in quello che, invece, è il vero cuore pulsante dell'epopea, un cuore fatto di scenari colorati solo di nero, del bianco dei contorni dei vari elementi che lo compongono, del rosso dei nemici che dovrete pedissequamente evitare ed eludere. L'art design, insomma, dopo un inzio più tendente al realismo, vira verso il minimalismo, richiamando le visioni offerteci, molti anni fa, da Vib-Ribbon.

All'interno delle oscure fogne che esplorerete, per le tre ore di durata dell'avventura, sarete braccati da mostruose figure simili a bambini. Non ci sono armi, né potrete in alcun modo ferirli. Potrete solo nascondervi e scappare, stando ben attenti a non attirare la loro attenzione. È proprio in questi frangenti, almeno durante le fasi iniziali del gioco, che Stifled dà il meglio di sé, riuscendo ad ammaliare e a terrorizzare il videogiocatore. Un po' come accadeva in Amnesia, dove il buio offriva riparo, ma finiva per far impazzire il protagonista, produrre suoni è l'unico modo per farsi strada tra i condotti, ma aiuterà anche i mostri ad individuarvi, sempre lieti di accorrere a velocità inaudita verso di voi, desiderosi di un pezzo della vostra succulenta carne.

Il rosso è il colore dei mostri. Non appena lo vedrete comparire sullo schermo sarete autorizzati a farvi prendere dal panico.

Soprattutto indossando il visore di Sony, perché Stifled può essere giocato anche in maniera assolutamente tradizionale, al primo terrificante incontro si resta completamente pietrificati, prigionieri di un'impasse apparentemente insormontabile dovuta all'impossibilità di vedere, senza farvi braccare dalla demoniaca presenza. Serve un pizzico di ragionamento e di spirito d'osservazione, perché la risoluzione dell'enigma, perché di questo si tratta, è sempre davanti agli occhi dell'utente. Lanciare un sasso può produrre rumore utile non solo per distrarre i nemici, ma anche per visionare, per una manciata di secondi, l'ambientazione che vi circonda. Farsi strada "ascoltando" un tubo che perde acqua può salvarvi da una situazione disperata.

Come anticipato, si può giocare senza visore, né microfono, ma l'esperienza perde (ulteriormente) mordente. Canticchiare quasi spensierati per aprirsi la strada, per poi trattenere il fiato, per paura di farsi scoprire dagli inseguitori, regala emozioni piuttosto forti. Peccato che l'incanto duri troppo poco. Al quarto incontro con i mostri, dopo la prima ora di esplorazione, il gameplay ha già mostrato tutto quello che aveva da mostrare, finendo per riproporre situazioni e soluzioni viste in precedenza.

Naturalmente il comparto audio si avvale di effetti magistralmente campionati. Fondamentale capire da che direzione provengano i rumori per orientarsi al meglio.

Un concept, da solo, pur geniale e brillante, non è sufficiente a garantire un'esperienza appagante e appassionante. Stifled è l'ennesima dimostrazione di questo infrangibile teorema. Per quanto l'avventura proponga un prologo stuzzicante e si sviluppi attraverso alcuni momenti memorabili, almeno per gli amanti dell'horror, la ridotta longevità, la povertà del gameplay e la riproposizione di meccaniche sempre identiche fanno sì che il gioco abbia il fiato fin troppo corto. È pur vero che, ora come ora, la realtà virtuale si alimenta di piccole esperienze che basano (quasi) tutto sull'immersione, ma Stifled si accontenta all'eccesso. Gustoso per la prima mezz'ora, noioso per il resto dell'avventura. Davvero poco, nonostante le ottime premesse.

5 / 10
Avatar di Lorenzo Fazio
Lorenzo Fazio non ha mai smesso di giocare sin dai tempi del Master System. Ha così cercato di unire l’utile al dilettevole, inventandosi giornalista videoludico. Qualcuno ci è cascato: scrive per importanti testate del settore da quasi una decina di anni.

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