Superlega e videogiochi: quello che il calcio dovrebbe imparare dai video games (e viceversa)
La posta in gioco è il tempo dei consumatori.
Questa settimana dodici fra le più potenti squadre di calcio del pianeta hanno scioccato il mondo intero dando l'annuncio della nascita della European Super League, una competizione privata pensata per mettere in ombra la Champions League al fine di "salvare il mondo del calcio" dalle grinfie della UEFA, organizzazione che, stando alle parole del patron del Real Madrid Florentino Perez, stava "lasciando morire" buona parte dei club più celebri d'Europa.
Anche tre italiane, ovvero Inter, Milan e Juventus, erano coinvolte nel progetto, un progetto che nel corso di soli tre giorni sembra esser già evaporato lasciandosi dietro le spalle una lunga serie di strascichi. La frattura fra i grandi club e la UEFA sembra difficilmente sanabile, ed è ormai evidente che le principali ragioni dietro l'iniziativa risedessero nell'incalcolabile mole di debiti che affliggono le casse di questi aspiranti titani dell'intrattenimento. A questo punto vi starete chiedendo: "Cosa centra tutto questo con il mondo dei videogiochi?".
Come ben sapete, testate specializzate come la nostra si trovano spesso e volentieri a dover difendere il medium del videogioco dagli attacchi di qualche politico, di alcuni media generalisti, di imprenditori scontenti dei successi dell'industry. E non è un caso che, persino nel corso delle discussioni maturate attorno alla Superlega, sia emerso ancora una volta lo spettro dei videogiochi, traghettato dai nomi altisonanti di prodotti come Fortnite e Call of Duty.
Questa volta, però, la storia è andata in modo un po' diverso. Nel corso di un'intervista rilasciata al Corriere dello Sport per spiegare l'anima della Super League, il presidente della Juventus Andrea Agnelli ha fatto una serie di dichiarazioni piuttosto interessanti, già analizzate in un brillante articolo di Chris Tapsell pubblicato sulla nostra equivalente inglese. "Vi fornisco alcuni dati", ha esordito Agnelli. "Un terzo dei fan del calcio segue almeno due club, e quei club sono spesso presenti fra i fondatori della Super League. Il 10% segue i grandi giocatori e non i club. Due terzi seguono il calcio per timore di rimanere esclusi dalla discussione dominante".
"E poi abbiamo il dato più allarmante: il 40% dei ragazzi fra i 15 e i 24 anni non ha alcun interesse nel calcio. Abbiamo bisogno di una competizione capace di opporsi a ciò che loro seguono sulle piattaforme digitali, trasformando il virtuale in reale. Su FIFA puoi creare la tua competizione, e quella competizione dev'essere riportata nel mondo reale. Il tutto senza contare gli effetti di [giochi come] Fortnite e Call of Duty, che catalizzano completamente l'attenzione dei giovani che diventeranno i consumatori di domani".
La Superlega, secondo Agnelli, non sarebbe nata con l'idea di spodestare la UEFA dal trono insanguinato del calcio internazionale, bensì con quella decisamente più ambiziosa di contrapporsi ai giganti dell'intrattenimento, fra cui ovviamente spicca il mercato dei videogiochi. Ed è per questo motivo che la storia è andata in modo un po' diverso rispetto al solito: non c'è stato un attacco ai videogiochi dettato dall'ignoranza o addirittura nato con lo scopo di sminuirli, ma una chiamata in causa figlia dell'invidia, se vogliamo dalla paura nei confronti di quello che a onor del vero è ormai un mercato spaventoso.
Le dichiarazioni dei padri della Superlega hanno messo a nudo la grande guerra economica della nostra generazione, ovvero quella per il tempo libero dei consumatori. Un campionato di calcio, una piattaforma di streaming, una console per videogiochi, un game as service, un palinsesto televisivo, un social network: tutti gli attori del mercato dell'entertainment sono oggi costretti l'uno contro l'altro in un ottagono nel quale vincere significa una cosa e una solamente: fagocitare il tempo degli appassionati.
La soluzione individuata dai presidenti della Super League è stata la più banale che si potesse immaginare, al limite del rasoio di Occam. Dal momento che i ragazzini investono tempo e denaro su FIFA Ultimate Team, e che sono ormai abituati a giocare tonnellate di partite virtuali fra squadre di figurine, l'unico modo per catturare la loro attenzione è trasformare il videogioco in realtà. Per conquistare le loro ore bisogna mettere ogni settimana Messi contro Ronaldo o Ibrahimovic contro Benzemà, trasformando definitivamente lo sport in intrattenimento.
Tapsell ha rifiutato questa ipotesi facendo un'osservazione corretta: il segreto del successo di prodotti come Fortnite e Call of Duty risiede nel fatto che sono gratuiti, e soprattutto che è possibile fruirne ovunque. Si può giocare partite sugli smartphone, si può sfruttare hardware vecchio di dieci anni, il tutto senza alcun costo d'ingresso. Una qualsiasi pay-tv richiede un investimento medio di 30 euro al mese per accedere ai campionati di calcio, per non parlare dei prezzi dei biglietti e degli abbonamenti, che nel corso degli anni sono schizzati alle stelle.
Il costo è certamente un fattore, ma la variabile fondamentale risiede nell'accessibilità dei contenuti. Giocare ai videogiochi oggi è facile, presto diverrà facilissimo grazie all'apporto del cloud: basterà un qualsiasi dispositivo dotato di uno schermo, una connessione internet e poco altro. I patron hanno paura che i giovani preferiscano guardare le migliori giocate di Mbappé su YouTube per poi fiondarsi dritti nella battaglia reale di Fortnite? Fanno bene ad aver paura, perché è proprio quello che sta succedendo e che probabilmente continuerà ad accadere.
Ed è anche una delle concause che si celano dietro la straordinaria impennata degli esports, che anno dopo anno continuano a raddoppiare i propri numeri. Il modello fondato sulla filosofia "from zero to hero", secondo la quale chiunque può raggiungere la vetta attraverso l'impegno e la dedizione, si contrappone fortemente alla visione semi-chiusa che ha decretato parte del fallimento della Super League; ma ciò che conta davvero è che, anche nel caso dell'esport, si tratta di un'immensa mole di contenuti intrattenenti e accessibili ovunque nel mondo senza il benché minimo requisito.
Volendo ridurre la questione ai minimi termini, la Super League ha violato l'assioma "il calcio è di tutti", una regola che ha inaugurato una fase di crescita senza precedenti quando è stata concretamente applicata al mondo dei videogiochi. Ma se è vero che l'universo calcistico dovrebbe imparare qualcosa dal mondo dei video games, è ancor più vero che la nostra industria dovrebbe meditare sui problemi che hanno portato le big d'Europa ad affrontare una situazione di questo genere.
Indebitate fino allo stremo - a causa non solo di una gestione scellerata, ma anche e soprattutto di un mercato malato - nonché costrette a centrare un obiettivo dietro l'altro, queste 12 società si sono trovate sull'orlo del baratro, ed è bastato un singolo anno di stop al sistema tradizionale per spingerle a cercare soluzioni quantomeno discutibili. Ecco, le grandi imprese del mondo dei videogiochi stanno imboccando un sentiero per certi versi simile, al punto che nel mercato contemporaneo una release fallita significa spesso la ristrutturazione, se non la chiusura, di interi studi di sviluppo.
La Superlega, per il momento, è tornata in uno stato dormiente, conoscendo una fine prematura che tuttavia profuma d'inizio, perché la guerra per il controllo del tempo libero è appena cominciata. Ma se è sbagliato gioire o addirittura festeggiare dinanzi a crolli eccellenti, ogni sconfitta rappresenta una lezione dalla quale bisognerebbe prendere esempio, sia che si inseguano trofei, sia che si insegua una statuetta per il Game of the Year. Il pubblico, dal canto suo, sembra star imparando a riconoscere i casi in cui si inseguono solamente i soldi.