Sweet Girl - recensione
Dove finiscono i genitori e dove iniziano i figli?
Ray vede spegnersi l'amore della sua vita, dopo una delle lunghe e crudeli agonie che il cancro infligge alle sue vittime. C'era una cura che avrebbe potuto forse salvarle la moglie, ma è costosissima e il povero rappresentante della working class non se lo può permettere. La distribuzione di un medicinale alternativo, ugualmente valido ma alla portata di portafogli meno pieni, è stato bloccata dalla potente Big Pharma che detiene il brevetto del farmaco originale. Quando tutto crolla, Ray giura vendetta.
Questo è successo anni fa, noi apprendiamo la storia nel solito modo, attraverso successivi flashback che ci riallacceranno al presente. Dopo la morte della donna, Ray e la sua amatissima figlioletta, una saggia ragazzina che sta diventando una saggia adolescente, cercano di andare avanti in grandi ristrettezze, mentre fioccano le fatture dell'ospedale. Lui allena combattenti in una palestra, lei, pur minuta e non molto alta, è già una promessa di MMA, degna figlia di cotanto padre.
Un giorno un giornalista contatta Ray e riesce a raccontargli qualche segreto che scatena il sempre affranto vedovo lungo una pista di corruzione e complotti che lo porterà molto lontano, a compiere azioni che metteranno gravemente a rischio l'unica cosa che gli è rimasta, la sua piccola famiglia. Ray finisce vittima di una feroce caccia all'uomo da parte di misteriosi individui, l'FBI inizia a indagare, con due agenti più civili della media, di cui specialmente la donna si appassiona umanamente al caso. Alla fine, anche chi sembra al vertice della macchinazione, si rivelerà una semplice marionetta, mentre ben altri sono quelli che tirano i fili. Se le Big Pharma non fanno bella figura, pure la politica si difende bene.
Sweet Girl è diretto dall'esordiente Brian Andrew Mendoza, che semplifica la storia scritta da Philip Eisner (L'incendiaria e Mutant Chronicles) e Gregg Hurwitz, scrittore piuttosto noto, passando troppo velocemente su alcuni snodi narrativi, lasciando allo spettatore supporre come si sia arrivati ad un certo punto. Del resto, anche senza voler fare i pignoli, di cose discutibili il film ne contiene tante, molte facilonerie nel corso della fuga dei protagonisti e dei conseguenti tracciamenti (va bene la tecnologia ma qui si esagera). Davvero fastidiosamente di maniera l'improbabile killer glaciale, al quale si tenta di appiccicare un background da perseguitato per motivi razziali. La donna agente FBI è fin troppo tenera ed empatica e pure senza un reale motivo.
Quanto agli interpreti, una star e molte facce conosciute, troviamo Jason Momoa, dalla presenza sempre degna di nota, in un ruolo da persona "normale" che si discosta dai suoi ultimi vari supereroi e ricorda piuttosto la serie Red Road che ce lo aveva fatto apprezzare nel 2014, dopo essere stato il carismatico Kahl Drogo di Game of Thrones. Aspettiamo di vederlo nel lungamente atteso Dune. La figlia è interpretata da Isabela Merced (nota anche come Isabela Moner), attrice e cantante americana di origine peruviana, vista nelle serie 100 cose da fare prima del liceo e La leggenda del tempio nascosto. La ricordiamo anche in Soldado e come protagonista di Dora e la città perduta.
Justin Bartha (lo scomparso di Notte da leoni) è il bieco capitalista, alleato con l'altrettanto bieco Raza Jaffrey, che ha all'attivo molte serie tv dai tempi di Mistresses, visto poi in Homeland, Elementary, Lost in Space. Manuel Garcia-Rufo è il killer, visto anche lui in Soldado e nel film 6 Underground, oltre che nelle serie Dal tramonto all'alba e Goliath. Nel ruolo della politica ambiziosa che si batte contro i malvagi speculatori, ricompare Amy Brenneman (era l'amata di De Niro in Heat e nei cast delle serie NYPD e Private Practice). I due agenti sono facce note, lei è Lex Scott Davis (Rebel) e lui è Michael Raymond-James, un veterano.
Nella sua parte più seria, la storia pur già declinata in molte varianti (dal film John Q al documentario Sicko) poteva prendere una piega plausibile. Prende invece una deriva che sarebbe tollerabile in un film come Fast & Furious e qui si fa fatica ad accettarla, nonostante un discreto colpo di scena a tre quarti del film (che del resto è breve, 96 minuti compresi i titoli di coda). Sweet Girl infatti non riesce ad essere credibile né come atto d'accusa contro le multinazionali della salute (banalissimo), né come thriller/action, troppo iperbolico e mal congegnato.
Certo piace sempre parlare male delle Big Pharma, e figuriamoci di questi tempi, oltre che di un sistema sanitario iniquo e che dire delle astuzie delle assicurazioni per non ridare mai quanto pagato con costose polizze. Ma qui tutto resta confinato dietro il fisico intimidente e la faccia di Jason Momoa, che infatti è l'unico motivo per guardare il film. Se lo si apprezza, si soffrirà meno.