The Black Phone - recensione
Quanti Uomini Neri nei vialetti dei sobborghi americani
Siamo nel 1978, nei sobborghi di Denver, soliti quartieri di villette di modesto livello, i vialetti a dividere praticelli stentati, cinti da cancellate scrostate. Al liceo ci sono le solite beghe di sempre, le insicurezze e le timidezze, le partite di baseball dove si vorrebbe fare bella figura, la sopravvivenza alle vessazioni degli immancabili bulli, gli sguardi mai ricambiati al momento giusto con quella che fa battere il cuore. A casa, la famiglia che spesso pesa e non solleva. Ma qualcosa di peggio si aggira per le strade poco frequentate, un furgone nero, nero come il cuore di chi lo guida.
Cinque ragazzi scompaiono in sequenza e la Polizia brancola come al solito. Quando questa sorte tocca al 13enne Finn però, non finirà dimenticato dall’incapacità degli adulti. La sorella minore Gwen, a lui legatissima, non si rassegna. Intanto anche Finn, classico adolescente sempre stato remissivo e insicuro, è costretto a improvvisare un piano di resistenza nello scantinato in cui è rinchiuso. E in quello scantinato, attaccato a un muro scrostato, c’è un vecchio telefono con il filo staccato. Eppure ogni tanto squilla e qualcuno gli parla.
A sorpresa The Black Phone si rivela un thriller intrigante, mentre mette in scena un “cattivo” davvero inquietante, la cui maschera resterà impressa nella memoria (frutto della creatività del mitico Tom Savini insieme a Jason Baker), un essere dis-umano degno di uno dei migliori Stephen King. E infatti, guarda un po’, Joe Hill, autore del racconto da cui è tratta la sceneggiatura (compreso nel libro Ghosts del 2007), è proprio figlio del grande maestro dell’horror. Hill, dalla straordinaria somiglianza fisica con il padre, comparso da bambino nel film Creepshow, scrive anche storie per i fumetti, oltre che romanzi e racconti, sua la saga Lock & Key. Anche il film Horns era tratto da un suo libro, così come la serie tv NOS4A2, un nome quindi il suo cui prestare attenzione quando compare nei crediti.
La storia comunque si rifà a fatti veri, in quell’anno veniva infatti scoperto John Wayne Gacy, il celeberrimo killer di ragazzini (33 i cadaveri trovati), personaggio ben presente nella cultura popolare americana, che si ipotizza sia stato d’ispirazione a King padre per il suo Pennywise. Hill, oltre a costruire in modo più originale una storia come tante già viste, usa in modo più intelligente e sottile l’elemento sovrannaturale rispetto al padre e, nel momento in cui sembra confermarlo, lo nega, per poi lasciare uno spiraglio di dubbio. Anche il finale è ben costruito, perché mentre sembra rimandare a Il silenzio degli innocenti, contiene un suo twist.
La riuscita è merito anche della sceneggiatura, scritta dallo stesso regista Scott Derrickson, autore dell’ottimo Sinister e del primo Doctor Strange, che contiene anche un omaggio a King padre e al suo It. Al suo fianco il fidato C. Robert Cargill. The Black Phone è ben diretto, ben montato, con un ottimo comparto sonoro e un gruppetto di bravi ragazzini come interpreti, fra cui segnaliamo il protagonista Mason Thames, visto nella serie tv For All Mankind, e Madeleine McGraw, la sorellina dal linguaggio diretto e brutale, che per fortuna ha carattere da vendere.
Fra i protagonisti adulti troviamo Ethan Hawke, perfetto in un ruolo per lui inusuale (da apprezzare la sua recitazione in originale), e James Ransone, un cittadino apprensivo ma poco credibile per le autorità. Nei panni del controverso padre di Finn e Gwen si rivede (e non è un caso) Jeremy Davies, mai dimenticato interprete di tantissimi thriller horror con la sua galleria di personaggi sempre disturbati. La sua figura paterna è a sua volta figlia di una lunga tradizione, il genitore rimasto solo a svolgere un compito di cui non è all’altezza, che a stento riesce a mantenere un umile lavoro, fra sbronze e accessi di violenza. Produce la Blumhouse, garanzia in campo horror di un buon livello complessivo, Jason Blum non sbaglia quasi mai il colpo, tranne qualche rara eccezione.
Il Rapitore (nella versione doppiata), “Rapace” nella versione originale con sottotitoli italiani, meglio il soprannome originale The Grabber, è l’incarnazione di tutte le figure angosciose di cui è costellata la storia degli Stati Uniti, quei serial killer di cui tanta cronaca vera ci ha raccontato le orribili gesta e sui quali si è formato un immaginario che però ha origine nelle culture di tutto il mondo: L’Uomo Nero. Proprio quel personaggio che fino a qualche anno fa veniva usato come minaccia nei confronti dei figli disobbedienti e che oggi, dopo troppi casi veri, è invece la minaccia più grande proprio per i genitori stessi.
Non possiamo dire di più per non correre il rischio di spoiler, ci limitiamo a dire che una visione The Black Phone la merita, finalmente un horror per adulti ma senza compiaciute efferatezze, una storia breve, tesa, senza iperboli, che riesce a mantenere la tensione fino alla fine. Un consiglio, non guardate il trailer, che mostra troppo.