The Gentlemen - recensione
La 'coolness' delle vecchie generazioni.
Dopo varie digressioni, fra un Re Artù pop, Aladdin (sigh), una discreta spy story come U.N.K.L.E. e un paio di divertenti Sherlock, Guy Ritchie torna nell'ambito in cui evidentemente si trova meglio, quel milieu malavitoso di cui, in anni di gioventù raccontava l'esagitata vitalità, la lotto per emergere, per ricavarsi il proprio posto al sole rispetto all'establishment.
E lo aveva fatto con uno stile sdoganato dopo l'exploit di Tarantino, riletto però in una sua chiave personale, a sua volta copiata da molti. Ora forse Ritchie si sente più adulto e passa dall'altra parte della barricata, quella degli arrivati, dei boss, che devono contenere la marea di aspiranti successori che si agitano feroci come pirañas alle loro caviglie. Ma la brama di potere pura e semplice avrà ragione su esperienza, classe e aplomb, conquistati in anni di duro marciapiede?
Con il suo nuovo film, The Gentlemen, ambientato a Londra, Ritchie, che scrive storia e sceneggiatura oltre a dirigere, ci racconta del facoltoso uomo d'affari Mickey Pearson (McConaughey), gli affari del quale da decenni consistono in produzione e vendita di marijuana di qualità eccelsa. Un impero costruito anno dopo anno, con serietà, affidabilità, correttezza, mai un problema con la legge, mai uno scazzo con la concorrenza. Sposato con la bellissima, chicchissima, tostissima Rosalind (Michelle Dockery), Mickey sta pensando di ritirarsi e godersi una giusta pensione.
Per questo motivo cerca un acquirente, offrendo ogni garanzia sulla correttezza dell'operazione, come in ogni azienda che si rispetti. A essere corretti come lui andrebbe tutto liscio. Ma oggi tutti credono di essere più furbi e hanno sempre voglia di speculare, anche quando non sarebbe necessario. Che la Grande Finanza legale abbia rovinato anche la Morale degli affari illeciti? A fare da filo conduttore nello svolgimento degli eventi, c'è Fletcher (Grant, attore rinato negli ultimi anni), un astuto giornalista/investigatore, con ambizioni "cinematografiche", che ha raccolto la sua investigazione in forma di sceneggiatura, intitolata The Bush e ricatta Mickey.
Quindi Mickey dovrà affrontare un percorso a ostacoli, affiancato dal suo fidato Raymond (Hunnam), alter ego e longa manu, e da qualche alleato imprevisto, mentre a cercare di fargli la festa saranno vari soggetti, fra cui anche avidi trafficanti cinesi (Henry Golding) e permalosi mafiosi russi. E anche un insolito gruppetto di acrobatici lottatori/rapper, nei quali serpeggia quella vena di follia che pervadeva i primi personaggi scritti da Ritchie nel lontano 1998. La narrazione si apre su un epilogo, al quale poi si ricollega attraverso una serie di flashback, per poi proseguire in avanti e concludersi spiritosamente, romanticamente, in uno stile narrativo che è tipico di Ritchie.
Per il film è stato radunato un ottimo cast. Matthew McConaughey è il Boss, reso impassibile da una vita che è stata tutta una scalata, dal lontano accampamento di caravan del natio Iowa al gotha dell'alta società degli spiantati Lord inglesi, passando attraverso la costruzione di un impero fondato per precisa scelta su una droga leggera. Michelle Dockery, femmina di sostanza, è la moglie, donna all'altezza di cotanto partner, di cui lui è perdutamente innamorato. Charlie Hunnam, che sfodera il suo originale accento inglese, è l'impeccabile Consigliori, barbetta curata, occhiali, cardigan di cashmere e il mitra sotto lo spolverino firmato, infastidito oltre ogni limite da mancanza di ordine e pulizia. Jeremy Strong è Berger, il gangster ebreo cui Mickey fa la sua proposta, ambizioso, arrembante, subdolo.
Dopo qualche passaggio minore Strong arriva su grande schermo finalmente in un ruolo più importante, dopo l'esplosione della fama conseguente alla splendida serie Succession. Colin Farrell, cui è affidato l'adorabile personaggio del coach della squadra di atleti "monelli", fa il proletario di buon senso, uomo con i suoi principi morali e rispettoso delle gerarchie. Con accento irlandese e un gusto per l'abbigliamento da urlo. Eddie Marsan è il proprietario di media arricchito, che detesta Mickey e vorrebbe rovinarlo, per pura dimostrazione di potere.
Non manca un accenno beffardo di critica di costume, con l'ipocrisia degli eredi della vecchia nobiltà, compagni di bella vita di un gangster, con il quale hanno stretto complicità criminali per continuare a mantenere la facciata della propria dolce vita, sia quella delle enormi magioni di costosa manutenzione che quella della vita sociale dispendiosa. C'è un problema di "successione" insomma, in ogni campo della società, perfino per quanto riguarda la realizzazione dei film, con un Fletcher al quale Ritchie mette in bocca il suo pensiero, quasi una dichiarazione di intenti, nostalgico della pellicola old school, 35 mm con formato anamorfico 2,35:1 e del "lieto fine" (e Ritchie si cita con il poster di U.N.C.L.E. e nel sottofinale c'è una chicca sulla casa di distribuzione).
E nostalgica è la vecchia guardia dei gangster (composta però da appena 40/50enni), rispettosi delle regole, in nome di una correttezza professionale che invece nel mondo del business ormai è stata scavalcata. Così come nei rapporti con la nuova delinquenza, quella delle bande dei ragazzetti da strada, strafottenti e aggressivi e senza rispetto, difficili da inseguire e da acchiappare, che a corrergli dietro viene il fiatone. E figurarsi i media, che ormai sono senza vergogna.
Guy Ritchie ci racconta la sua nuova storia come un ben congegnato balletto, ironico e sanguinario, scandito da splendide canzoni (Vitamin C, Cream, Roxy Music, Paul Jones), con un ritmo allegro anche se meno frenetico rispetto ai tempi di Lock & Stock e The Snatch. Ma è giusto sia così: i ragazzi di allora sono cresciuti, adesso vorrebbero raccogliere i frutti del sudato lavoro e mettersi tranquilli.
L'avidità fa male, le regole esistono e vanno rispettate. E se c'è un Re della Giungla, non è obbligatorio cercare di detronizzarlo in malo modo. Meglio discuterne, da gentiluomini.