The Irishman - recensione
Martin Scorsese dipinge un affresco di storia contemporanea che resterà negli annali.
Diventano vecchi anche i gangster, i malavitosi italo-americani che ci ha raccontato Martin Scorsese in una carriera lunga quasi cinquant'anni. Gente allegra, strafottente, ambiziosa, incosciente, appagata, scontenta, cinica, deviata, con tutte le varie tipologie che si trovano nel resto dell'umanità. Se non hanno la fortuna di finire ammazzati prima, diventano vecchi e magari finiscono in galera o si ammalano. Restano soli e si aprono le porte dei ricoveri per anziani, dove nessuno sa chi erano e a nessuno importa. E così non restano che Dio e una luce nel corridoio deserto.
Conosciamo l'irlandese Frank Sheeran vecchio e malato, nella confortevole casa di cura in cui è ricoverato, che ricorda, raccontando a un invisibile interlocutore. Ricorda un viaggio in cui stava portando in macchina da Philadelphia a Detroit Russell Bufalino, il suo amico fraterno, anzi quasi figura paterna, insieme alle rispettive mogli. E anche all'interno del viaggio, Frank ricorda quanto avvenuto negli anni precedenti, quando da reduce della Seconda Guerra e poi umile camionista, già con disinvolte tendenze, aveva avuto l'incontro fatale con il boss Bufalino, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva, introducendolo là dove contava essere.
Frank si era guadagnato tutto, con la lealtà, la precisione e l'obbedienza, che naturalmente implicava "dipingere i muri", cioè compiere esecuzioni mortali. Sono passati così gli anni, Frank è uno soddisfatto di sé, in fondo ha compiuto ogni genere di illegalità ma è diventato membro di una Famiglia solidale, dalla quale si è sempre sentito di far parte a diritto. In quel percorso Russ lo ha avvicinato al potentissimo Jimmy Hoffa, Padrone con la maiuscola del sindacato degli autotrasportatori, potentissimo vista l'importanza che ha negli USA il trasporto su strada.
Da assistente e guardia del corpo, Frank si era avvicinato a Jimmy con stima e affetto, e il legame si era stretto sempre più, diventando una vera amicizia. Ma dopo il suo arresto, sei anni di galera per corruzione, Hoffa era uscito ben deciso a riprendersi il suo sindacato, dalla cui presidenza era stato scalzato da gente molto vicina ai boss italoamericani. La sua insistenza, l'ostinazione a non cedere a compromessi e i suoi modi sprezzanti, gli erano costati la misteriosa sparizione di cui Scorsese ci darà la sua versione.
Per raccontare l'arco della vita di Frank, Scorsese la prende da lontano, dagli anni '50, e racconta prendendosi tutto il tempo che la produzione Netflix gli ha concesso, subentrando alla Paramount con un budget enorme di 160 milioni di dollari. Senza estetizzazioni, senza romanticismi, senza indulgenze, senza fare eroi, si distende in una narrazione dettagliata, ricca di scene anche marginali, di chiacchiere anche ininfluenti rispetto allo svolgersi della trama, per il gusto di mettere ad agire/chiacchierare attori/amici del calibro dei protagonisti. Tutto alla fine converge sul fulcro del racconto, ossia il catartico destino di Hoffa.
Intanto sugli schermi televisivi scorrono le immagini degli eventi "esterni" di quei decenni: la fallimentare invasione della Baia dei Porci, l'elezione e l'assassinio di John Kennedy, stragi mafiose, esecuzioni varie. La Famiglia protegge, tiene al riparo, tesse trame da cui si comprende come sia dietro a tutto, perché tutto avvolge, tutto governa, su tutto lucra. Ma Frank è dalla parte giusta, comprende e giustifica. Finché sarà costretto alla prova di fedeltà estrema.
Nella giovinezza di Frank non c'è stato nulla della sfacciata fame di vita che aveva Ray Liotta in Quei Bravi Ragazzi o dell'ambizione al riscatto di De Niro in Casino. Qui c'è la "banalità del male", c'è la scusa "tengo famiglia", il paravento della protezione dell'Organizzazione per assicurare un bel futuro alle figlie. Quindi si tende a tracciare un parallelo quasi inevitabile con il Grande Padre di tutti, quello Stato che ci accudisce, ci protegge ma con quali modi, a e quale prezzo? E soprattutto, con quale reale necessità?
Potrebbe essere il Destino di una Nazione, rassegnato alla perdita dei suoi ideali in nome di una sopravvivenza a tutti i costi, in nome della sopraffazione più animale, della pura legge del più forte. L'unica reazione è l'eliminazione fisica, il mondo è shakespearianamente intriso di sangue, il sogno di un New World nella fuga da quello vecchio e marcio dell'Europa. È sempre stata una favoletta che tutti si sono raccontati, senza davvero crederci (come diceva Griffith in Nascita di una nazione: "Osar sognare un giorno dorato dove la guerra bestiale non governerà più").
The Irishman è la conclusione di un mondo raccontato attraverso una lunga e gloriosa carriera. Anche se Scorsese non potrà non ritenersi soddisfatto della propria parabola professionale, avrà constatato definitivamente che raccontando non si cambia nulla. E così non si può sfuggire alla malinconia, nel volgersi all'indietro, nel vedere tante promesse non mantenute, tanti ideali infranti, tante possibilità sprecate.
Epocale il terzetto di attori protagonisti, che qui abbandonano certi eccessi di caratterizzazione per una recitazione sobria, sotto le righe: pochi dei personaggi di questi film rispondono al chiassoso cliché del malavitoso italoamericano, alcuni sono solo dei gran cafoni ma fra le altre sfere regna un aplomb da consiglio d'amministrazione da multinazionale.
Giganteggiano Robert De Niro (alla sua nona collaborazione con Scorsese), Joe Pesci e Al Pacino, dei quali poco importa il ringiovanimento dei volti realizzato dalla ILM, che a tratti sembra un semplice effetto da "calza" sull'obiettivo (impossibile sarebbe stato affidare i ruoli dei personaggi ad giovani ad altri attori). Intorno a loro troviamo una ridda di volti noti, da Harvey Keitel a Ray Romano, e poi Jesse Plemons, Anna Paquin, Stephen Graham, Bobby Cannavale, Jack Huston e infiniti altri, in un casting perfetto.
Questo è uno di quei film di cui, solo a leggere i nomi di chi partecipa al progetto, un cinefilo sorride di calda felicità interiore, come si sentisse abbracciato da tanti personaggi che nei decenni gli hanno regalato quelle emozioni che solo il cinema può dare. La sceneggiatura è scritta da Steve Zaillian, uno che ha all'attivo cose come Schindler's List, Gangs of New York, American Gangster, Tutti gli uomini del re e la serie The Night of. Che adatta per lo schermo il libro di Charles Brandt intitolato I Heard You Paint Houses, per un totale di 209 minuti di spettacolo. Le musiche sono del "solito" Robbie Robertson (precisa come sempre ed evocativa la selezione delle additional songs), come "solita" è Thelma Schoonmaker al montaggio e anche Rodrigo Prieto, alla fotografia, ha già lavorato con Scorsese, che ama circondarsi di collaboratori abituali.
Ogni rapporto è soggetto al Bene Superiore dell'Organizzazione (per Il Re e per Cosa Nostra) e l'alchimia dei rapporti personali è sempre volatile e comunque va mantenuta a carissimo prezzo, senza mai essere al di sopra dell'interesse generale. Intimidazione, ricatto, corruzione e sopraffazione sono il quotidiano modo di vivere, che entra nelle ossa fin da piccoli, creando una società avulsa dall'organizzazione dello Stato ufficiale, nella pretesa di essere giustificati perché altrimenti si verrebbe schiacciati, discriminati. Ma ormai "It Is What It Is", il rassegnarsi, conviene.
The Irishman è un film che viene automatico definire elegiaco, che allude a colpa, pentimento, castigo (siamo fra cattolici, non dimentichiamo), un'illusione che può intiepidire il vecchio cuore di Frank ma non quello di chi guarda, che non assolve. E nemmeno Scorsese. Ma nemmeno lo stesso Frank, e qui sta il bello. In fondo, è andata come è andata.
Il film è in programmazione per qualche giorno in alcune sale cinematografiche, poi sarà disponibile su Netflix dal 27 novembre.