The MISSING: J.J. Macfield and the Island of Memories - recensione
L'ultima fatica di Swery.
Dopo il misterioso The Good Life (2017), il game designer Hidetaka Suehiro, per i fan Swery, ritorna con The MISSING: J.J. Macfield and the Island of Memories, un titolo bizzarro e orrorifico, dalla trama forte e degno erede dei precedenti successi con Access Games (Deadly Premonition e D4: Dark Dreams Don't Die).
Questa volta cambia genere, e tentando di ridefinire alcuni elementi ricorrenti dei puzzle-platformer ci porta nella misteriosa Isola delle Memorie, nel Maine. È la terra amata da Stephen King, coi suoi silos, le stazioni abbandonate e la tipica atmosfera del Nord-Est America. Ma a farci compagnia, oltre al re, sarà anche David Lynch, il quale verrà emulato in alcune scelte stilistiche che i cultori di Twin Peaks riconosceranno immediatamente.
I fan sanno già cosa aspettarsi e non resteranno delusi: Swery non manca, come sempre, di alternare momenti cupi a spezzoni di vita quotidiana, e soprattutto non dimentica che è l'introspezione psicologica a rendere le sue opere prodotti autoriali e artistici, amati per il loro tocco emotivo, onesto e spiazzante. Anche se il comparto tecnico alle volte è carente, ma su questo torneremo, la cura riservata ai dialoghi e all'atmosfera generale è senza dubbio impeccabile. Scopriremo così, tra un enigma e l'altro, il passato e il futuro dell'adorabile duo protagonista.
L'incipit è semplice ed efficace. Durante un campeggio sotto il cielo stellato, Emily, la "nostra" migliore amica, scompare a causa di un'entità d'ombra. Nubi, fulmini, la ricerca comincia, e come spesso avviene con i platform a scorrimento, inizia camminando, camminando verso distese disseminate di ostacoli da scalare, che pian piano si fanno mortali e rivelano creature mostruose.
Ma ecco che avviene qualcosa di inaspettato, un fenomeno che definisce l'isola. Il gimmick che domina l'intero gioco e stupisce: dopo la prima, terribile morte (che non descriverò per lasciarvi la sorpresa, ma di forte impatto scenico), il corpo dell'eroina ricomincia a muoversi. Siamo abituati a riportare indietro il tempo, a controllare la fisica, ma questo è qualcosa di diverso. Per attivare pulsanti e distruggere ostacoli dovrete usare non solo l'ingegno, ma il vostro stesso corpo: smembrato, in fiamme, contorto e ridotto a una testa rotolante. Il momento più assurdo è quando, col collo spezzato, il mondo si capovolge come nei più classici platform che pasticciano con la gravità!
Si torna al checkpoint solo perdendo l'ultimo pezzo prima della rigenerazione oppure quando si è catturati dalla terribile Hairshrieker, mostro ricorrente e armato di taglierino, che come il Nemesis in Resident Evil 3, ci perseguiterà ad ogni occasione buona.
L'adorabile protagonista ridotta in poltiglia è forse un po' troppo. Che dire. Il body horror all'interno del gioco è dominante, non c'è dubbio, è forse il suo selling point e allo stesso tempo potrebbe allontanare qualcuno. Non è un capriccio autoriale: è importante non sottovalutare l'impatto che ha sul gameplay, anzi il modo in cui da gameplay si fa elemento portante della trama. Rigenerarsi è doloroso, fisicamente e mentalmente per la protagonista, temporalmente per noi giocatori. È come se ci si fosse dimenticati della lezione impartitaci da Super Meat Boy: che più veloce è il respawn, più è divertente affrontare giochi altamente punitivi, che basano la loro ragion d'essere sul trial and error.
Qualcosa è andato storto? C'è un po' di goffaggine nella resa del potere in questione. Per esempio, Swery paragona la protagonista a un supereroe, ma siamo molto lontani dal genere; ci si abitua al fiottare del sangue e si assiste a scene che smorzano l'effetto horror, alle volte persino comiche (immaginate una testa schivare muri di lame rotanti); infine, capita di sentirsi frustrati. Alcune sezioni di gioco diventano insostenibili, anche se non difficili dal punto di vista della risoluzione finale, e questo perché J.J. impiega troppi secondi a ricomporsi, la transizione è spettacolare ma francamente ripetitiva.
Questa fatica dona profondità complessiva all'avventura ed è parte integrante della metafora narrativa, dandogli un tocco meta e rendendoci più empatici nei confronti di J.J. in vista del grandioso climax finale, che osa davvero, davvero tanto, preparando solo in parte il giocatore alla rivelazione conclusiva.
È una scelta cosciente dunque: non a caso c'è la possibilità, in una seconda run, di velocizzare enormemente il ritmo, dai movimenti del personaggio alla selezione dello stato corporale (che è un po' come attivare una particolare skill, con i vantaggi che ne conseguono). Vengono chiamati "cheats" ma sono in realtà bonus per il post-game, in cui raccoglieremo i collectibles lasciati alle spalle per sbloccare abiti, file audio, concept art e dialoghi con i personaggi secondari nell'interfaccia del menù di pausa, uno smartphone.
Un difetto evidente però c'è. Poiché ci si è concentrati troppo sulla meccanica portante, non si è riservata la stessa attenzione alla struttura dei puzzle. Sono tutti molto puliti e ben impostati, di difficoltà variabile ma tendenzialmente media, alcuni si trovano persino in ambienti molto evocativi... Il problema è che non sono nient'affatto originali, e mai davvero geniali. Chi ha giocato Limbo, Pid, Deadlight, Never Alone, il più recente remake di Yume Nikki e altri titoli d'impostazione simile, potrebbe percepire una certa monotonia di fondo, e sarebbe motivato a proseguire più per la trama avvincente, che dissemina indizi vistosi ma col contagocce, che per il gameplay. In realtà per gli amanti del genere lo riterrei un must, ma certo non per via del livello di sfida.
La grafica è altalenante, l'acqua e il cielo sono un piacere per gli occhi, ma sul resto l'antialiasing mostra i suoi limiti. La colonna sonora vanta di un repertorio molto bello ma brevissimo, quasi minimale; a quanto pare si è preferito curare i suoni diegetici e gli effetti sonori degli ostacoli e della natura circostante. Una scelta azzeccata, che permette di concentrarsi sulla prova dei doppiatori.
Ultime note, ma non per importanza: per chi vede nella lingua inglese una barriera linguistica, non pare siano disponibili, al momento, versioni in italiano. Abbiamo inglese, coreano e giapponese. Il 100% (achievement inclusi) si ottiene con la ricerca di collectibles, dalle più vistose Sleepy Donuts ai messaggi segreto di un certo peluche, individuabili soltanto in una seconda run.
E infine, come dichiara il disclaimer d'apertura, il gioco ha una morale ben chiara, didascalica e comprensibile, e cioè, parafrasando: nessuno dovrebbe vergognarsi di ciò che è. Per evitare spoiler mi limito a dire che la tematica LGBTQ, evidente comunque dalle primissime scene, è affrontata di pieno petto, in modo - parere personale - molto maturo. Considerando che White Owls Inc. ha sede ad Osaka non è affatto un elemento irrilevante, e soprattutto scontato. Autori come Swery fanno il bene dell'intera industria, anche quando, più per via della mancanza di fondi considerevoli, inciampano un pochino.