The Mooseman - recensione
Lo spettacolo della mitologia videoludica.
I videogiochi possono essere considerati arte? Un dilemma che torna costantemente in auge e che alimenta un dibattito probabilmente irrisolvibile sia tra appassionati, sia tra coloro che hanno sempre guardato questo medium da un punto di vista esterno. È soprattutto quando parte della società critica ingiustamente i videogiochi con argomentazioni spesso stucchevoli che si cerca di uniformarli ad altre opere normalmente accettate anche in ambito artistico. Qui però le cose si complicano.
Se un creatore del calibro di Shigeru Miyamoto non riesce a definirsi un artista e un guru del mondo indie come Jonathan Blow è convinto che il videogioco abbia più di un difetto rispetto agli altri media, la questione è tutt'altro che semplice da analizzare e sicuramente non è questo l'ambito adatto per farlo. Valeva però la pena di accennare al connubio videogiochi-arte perché di fronte a un'opera come The Mooseman, pensare al valore artistico (e più in generale ai valori) della nostra passione è pressoché inevitabile.
The Mooseman è un interessante progetto partorito da Mortheshka, un team di due persone con base nella città russa di Perm. Inquadrare il lavoro di Vladimir Beletsky e Mikhail Shvachko non è semplice ma quest' avventura 2D potrebbe essere definita come un gioco alla Never Alone che incontra la ricercatezza artistica di produzioni come Journey o Abzu. Un mix sicuramente curioso e affascinante che però inevitabilmente divide e fa discutere.
Sette misteriose figure si stringono intorno al fuoco, sette individui attendono all'estremo della foresta. Un uomo si stacca dal gruppo, appoggiandosi stanco al proprio bastone e partendo per un viaggio che lo spingerà ben oltre i confini del mondo conosciuto, all'interno dei Tre Mondi creati dal dio Yen tantissimo tempo fa. Inizia così una coinvolgente odissea che ci permetterà di scoprire i miti pressoché sconosciuti di diverse tribù ugro-finniche.
Se il Mondo di Mezzo è stato creato per il benessere degli uomini e per il loro prosperare, il Mondo Inferiore si sviluppa nelle profondità oscure dell'oceano mentre quello Superiore ospita gli antichi dei. Tra i vari strati della creazione si muovono imperscrutabili spiriti che nascondono gelosamente i propri segreti e i propri averi e che ovviamente sono pronti a tutto pur di impedirci il nostro lento ma inesorabile peregrinare verso una meta tanto bramata quanto sconosciuta.
La storia narrata da The Mooseman è la storia di un viaggio (inevitabile anche per questo il paragone con Journey), un viaggio che ci viene progressivamente svelato attraverso dei testi opzionali sbloccabili proseguendo nell'avventura, attraverso le parole di una narratrice e soprattutto con gli eventi proposti a schermo, con i misteri in cui ci imbatteremo e con i puzzle che dovremo risolvere.
I ragazzi di Morteshka hanno optato per un comparto narrativo piuttosto nebuloso e aperto all'interpretazione come altri giochi riconducibili a questo genere di avventure ma hanno anche deciso di inserire un sistema più esplicito per spiegare al giocatore i miti di popoli probabilmente sconosciuti ai più come i Permiani, i Komi-Ziriani, i Mansi e i Sami. Si tratta di un'affascinante e continua scoperta, di un tuffo in un ignoto composto da strane creature e curiose figure divine decisamente originali.
La narrazione dei miti ugrofinnici è indubbiamente il fulcro del lavoro degli sviluppatori russi e questo aspetto è evidenziato dalla scelta di proporre un gameplay semplice e funzionale, incentrato su due azioni basilari: il movimento e l'uso di abilità proprie del protagonista. La prima abilità è anche quella disponibile sin dalle prime battute, nonché la base su cui sono costruiti buona parte degli enigmi: il nostro alter ego è in grado di vedere dettagli invisibili a occhio umano e apparentemente appartenenti a un'altra dimensione.
A questo concetto di "dimensione alternativa" sono legati come detto diversi enigmi, che insieme a una singola (e decisamente troppo lineare boss fight) rappresentano le uniche variabili a quello che potrebbe tranquillamente essere definito un walking simulator in 2D. Nonostante gli innegabili limiti delle meccaniche di gioco, bisogna però ammettere che i ragazzi di Morteshka hanno saputo garantire una varietà inaspettata al classico incedere del protagonista, tra fughe, battute di caccia, fasi stealth e altri momenti che non sveleremo per non spoilerare assolutamente nulla.
A livello contenutistico ci troviamo tutto sommato in linea con altre produzioni di questo tipo: nel caso in cui vengano ignorati i collezionabili (degli artefatti che si ispirano a oggetti realmente presenti al museo di Perm Krai) sarà possibile completare il titolo in poco meno di due ore per una longevità in definitiva accettabile considerando il prezzo di €6,99 proposto su Steam.
Come da tradizione per questo tipo di avventure non è il gameplay a saltare immediatamente all'occhio. Potrà risultare come un affronto per tutti coloro che considerano la profondità del gameplay l'unica e più importante discriminante per la valutazione di un videogioco ma The Mooseman rientra in quella categoria di produzioni che sarebbe riduttivo giudicare semplicemente per la qualità dei puzzle o delle boss fight.
Questa piccola software house di Perm ha deciso di raccontare le tradizioni di popolazioni ignorate dai più confezionando un progetto che porta con sé una mole di valori non indifferente. C'è un evidente valore didattico che sicuramente affascinerà i più attenti e coloro che decideranno di leggere ogni schermata incentrata sui miti ma c'è anche un valore artistico innegabile nel mix audiovisivo che colpisce i giocatori schermata dopo schermata.
Accompagnati dalle sonorità del popolo Komi e da schermate che paiono veri e propri dipinti in movimento, The Mooseman ci prende per mano e ci accompagna alla scoperta delle tradizioni di un popolo, di un folklore che prende vita nella storia dell'enigmatico Uomo-Alce. C'è chi parlerà di un "non videogioco" e chi inneggerà all'opera d'arte, poco importa dove stia effettivamente la ragione, ciò che conta è il fascino complessivo di un'esperienza che merita di essere provata anche da coloro che non hanno mai apprezzato quelle produzioni in cui il gameplay passa, almeno in parte, in secondo piano.