The Report - recensione
L'imbarbarimento conveniente.
Tutti i Governi, tutti i Regimi, si basano sugli uomini, dal vertice in giù fino alla base, tutta la complessa macchina di una Stato è mandata avanti, fin nelle sue pieghe meno evidenti, nei suoi incarichi più umili, dalle persone che ci lavorano. Alcune solo per uno stipendio, altre anche credendo in quello che fanno e nel Sistema per cui si impegnano.
Razza pericolosissima questa, perché composta da idealisti, magari pragmatici ma pur sempre convinti della forza delle idee per cui lavorano, che rappresentano. Dalla loro delusione possono scaturire molti problemi per le Autorità che li sovraintendono, che a loro volta devono rispondere ad altri nella scala gerarchica.
Quindi spesso la denuncia di illegalità, di abusi, di disonestà, rischia di restare soffocata, smorzata, oppure proprio nascosta, obbligando chi ne sia al corrente a comportamenti all'apparenza scorretti, per portare l'opinione pubblica a conoscenza di gravi malfatti. Questi individui vengono alternativamente considerati eroi o traditori a seconda delle circostanze (a proposito, come sta, dov'è Julian Assange?).
Di questo argomento si occupa il film The Report (che spiritosamente nel titolo si mostra come la versione "censurata" di The Torture Report), che sarà distribuito da Amazon il 29 novembre. E, in qualunque modo, merita ampiamente la visione. Il film è scritto e diretto da Scott Z. Burns, più noto come sceneggiatore che come regista, con ottimo senso dello spettacolo, in modo da rendere la narrazione incalzante e ansiogena, con rigore ma senza drammatizzare.
Spira, insomma, la migliore aria da cinema politico anni '70. The Report racconta una storia tutta vera, quella di Daniel J. Jones (Adam Driver), ex dipendente FBI, assunto come assistente dalla Senatrice Dianne Feinstein (Annette Bening), che nel 2007 lo mette a indagare sulla distruzione di 92 nastri (denunciata dal New York Times), in cui la CIA aveva registrato gli interrogatori di due uomini che si supponeva coinvolti negli attentati dell'11 settembre (per la cronaca, Abu Zubaydah e Rahim Nashiri), sospettati di far parte di Al-Qaeda.
L'indagine di Jones durerà sette anni, con l'apparente "collaborazione" della CIA, coadiuvato da alcuni collaboratori che poco alla volta lo abbandoneranno.
Con certosino lavoro di raccolta di dati, di rapporti, di mail, incrociando e confrontando 6,3 milioni di documenti graziosamente "concessi" dalla CIA, Jones farà venire alla luce quanto oggi bene sappiamo, ossia l'illegale sistema di rapimenti e torture messi in atto dalla CIA (torture su 199 individui alcuni deceduti, nessun colpevole certo), per arrivare a risultati risibili (ammesso dalla stessa agenzia).
Ora qualcuno dirà che in fondo facevano bene, che dopo l'11 settembre era la cosa inevitabile da fare. Ma si ascolti il discorso di finale di John McCain (repubblicano fra l'altro) e si rifletta sui risultati concreti (non quelli millantati) portati a casa, sul mostruoso spreco di denaro pubblico (solo i due psicologi James Mitchell e Bruce Jessen, con i loro studi palesemente mancanti di fondamenta, hanno incassato 80 milioni di dollari) e su come siamo messi oggi, anno di grazia 2019, 18 anni dopo l'11 settembre. Senza considerare il fattore etico.
Una volta completato però, il rapporto non doveva venire alla luce: troppo sarebbe costato al Sistema, e nei giochi politici fra repubblicani e democratici in fondo non conveniva a nessuno, in nome della "riappacificazione" voluta ecumenicamente da Obama Altrimenti sarebbero stati resi noti troppi fatti imbarazzanti su George W. Bush, sui suoi cari sodali Cheney e Rumsfeld, e su tutto il gruppetto dei Neocon ben al corrente della deriva presa.
Grande il cast al servizio di una storia di cui palesemente si condivide il senso, con una galleria di interessanti personaggi, tutti realmente esistenti, dal Denis McDonough con il cinismo pragmatico del professionista della politica, affidato a Jon Hamm; la coerenza derivante dalla sicurezza del proprio ruolo della Senatrice Feinstein, interpretata da Annette Bening; e infine l'arroganza dei vari direttori CIA, che sanno di essere indispensabili al Potere, nella loro costante rivalità con l'FBI.
Il film si giova di un cast dove non c'è faccia che non sia riconosciuta con piacere dal cinefilo o dall'appassionato di serie TV (sarà ora di trovare un aggettivo anche per questa categoria di spettatori). Ci sono tracce consistenti della bellissima serie The Looming Tower (anch'essa su Amazon), dalla quale ritroviamo un personaggio, l'agente Ali Soufan, che lì aveva la faccia più conosciuta di Tahar Rahim, mentre qui è interpretato dal meno noto Fajer Al-Kaisi. E ci sono anche echi voluti di Zero Dark Thirty, che era palesemente filo-CIA, e spiritosamente anche di 24 e dell'agente Bauer.
Ci vengono in mente tanti film già degli anni 2000, in cui si cominciava a discutere del problema della tortura post-11 settembre come Unthinkable, Rendition, Five Fingers e i documentari su Guantanamo e Abu Ghraib, oltre al film di Michael Moore, Farenheit 9/11. The Report è un film su ciò che significano oggi democrazia e rispetto delle regole. Siamo perdenti in questo di fronte al fanatismo? Dobbiamo allora diventare come i nostri avversari? Questo garantirebbe la vittoria? Come per la violenza in genere, ci sarebbe solo un'escalation di orrore? Cosa distingue un uomo da un assassino, a quanto si deve abdicare senza per questo perdere la nostra umanità?
Si dice che anche un sassolino possa bloccare un ingranaggio. È più facile però che provochi un leggero disturbo e che poi venga polverizzato. E il meccanismo va avanti, e avanti. Ma la Democrazia ci dà questa illusione, specie quella americana e specie grazie ai suoi film, di contenere al suo interno anche gli anticorpi per sconfiggere qualunque malattia.
Una volta ci credevamo di più, adesso sappiamo che la malattia ogni tanto sembra in remissione, ma sta diventando sempre più forte. E quindi ci crediamo meno ma non per questo stimiamo meno chi si espone in nome del suo ideale.