The Tragedy of Macbeth Recensione: Le cose nate dal male traggono forza dal male
“Un viso falso deve celare quel che il falso cuore ben sa”.
Ogni tanto qualche studioso rilancia la teoria che Shakespeare non sia mai esistito. Certo è che, fosse così, qualcuno ha fatto bene a inventarlo.
Non solo per le stupende commedie e tragedie che risulta avere scritto, in modo tale da poter arrivare al cuore di colti e ignoranti, di ricchi e poveri. Ma anche per le generazioni degli ultimi cento anni circa, per le tante trasposizioni su grande e piccolo schermo delle sue opere, che sono state davvero numerosissime. Del resto, come non essere tentati da "sceneggiature" originali così perfette?
Le più trasposte sono state Romeo e Giulietta, seguita da Amleto; e poi la lista senza fine: Otello, Riccardo III, La bisbetica domata, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, Giulio Cesare, Re Lear, Sogno di una notte di mezza estate, Il racconto d'inverno, La tempesta, Tito Andronico, Enrico VI, tutte commedie o tragedie dirette da grandi registi e affidati a grandi interpreti e su ciascun film ci sarebbe da raccontare qualcosa, per i nomi coinvolti. Ma non vogliamo dimenticare una serie tv dedicata ai suoi anni giovanili, intitolata semplicemente Will, stroncata o ignorata dai più, eppure piacevolissima pur nel suo taglio teen.
Però adesso siamo qui per parlare di una delle sue opere più rappresentate, del Macbeth (re di Scozia nei primi dell'anno 1000), in un nuovo trattamento, il quinto, della celeberrima tragedia composta nei primi anni del 1600, versione che arriva quando ancora è fresca la memoria della (per noi) splendida versione di Justin Kurzel del 2015, con Michael Fassbender e Marion Cotillard.
A dirigere The Tragedy of Macbeth è Joel Coen, per la prima volta alla regia senza il fratello Ethan. Lo fa usando un formato in 4/3 e con un bianco e nero da cinema espressionista, di smagliante bellezza (la fotografia è di Bruno Delbonnel). Quanto agli interpreti, questa volta troviamo Denzel Washington e Frances McDormand (moglie del regista).
Questo è un altro colpo di genio perché addirittura sposta in avanti l'età dei protagonisti, che nelle altre versioni erano di età minore, facendone non più due giovani ambiziosi che a costo di ogni nefandezza cercano di costruirsi un futuro di potere e gloria, ma due ormai vecchi senza discendenza che però si rodono per la frustrazione di una vita passata a sottostare.
Bramosi di rivincita, per loro non esiste amicizia, non esiste lealtà. L'operazione è assai interessante e ricorda quella opposta fatta dal nostro Zeffirelli, quando nel 1968 aveva riportato finalmente Giulietta e Romeo alla loro vera età, facendone due struggenti adolescenti con tutte le illusioni romantiche, lo slancio vitale e l'incoscienza di quell'età.
Macbeth è il leale cugino di Re Duncan, tutto quello che ha avuto se lo è guadagnato sul campo di battaglia, a prezzo di sangue e lacrime. L'eroico combattente si lascia deviare da una maligna profezia (perché nell'incredulità che l'essere umano sia capace di tanta crudeltà, ci inventiamo sovrannaturali forze del male, che inducono a compiere azioni così orrende da non poterle quasi accettare).
Anche l'ambiziosa e parimenti spietata consorte lo sobilla (facilmente) e così compie una serie di delitti orribili, in un'escalation di follia criminale, tutto in nome del conseguimento e mantenimento di quel Potere che doveva ad ogni costo appartenergli. Quando la moglie si accorgerà di avere aperto le porte dell'inferno sarà tardi, per entrambi. Macbeth resisterà fino a quando gli sembrerà di vedere la foresta di Birnam marciare verso di lui. Perché gli dèi fanno impazzire quelli che vogliono perdere.
Nella parte finale del dramma, pronuncerà le indimenticabili parole: "Domani e domani e domani... Spegniti breve candela, la vita non è che un'ombra che cammina; un povero commediante che si pavoneggia e si agita sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla".
Quanto alla messa in scena cinematografica, colpisce la forza visiva di certe inquadrature, di mai sterile estetica ma sempre funzionali al dramma che si sta svolgendo, immerse in una luminosità lattiginosa, come vagassimo nelle nebbie degli animi dei protagonisti. Coen adatta il linguaggio per renderlo più agevolmente comprensibile, senza snaturarlo, snellisce la trama (il film dura un'ora e tre quarti) e lo ambienta in una scenografia funzionale, minimalista, davvero teatrale perché tutta ricostruita in interni, opera di Stefan Dechant. I costumi sono sobri ed essenziali e le musiche sono minimali, anch'esse di Carter Burwell (da sempre a fianco dei Coen).
La versione che qui vediamo aggiunge importanza all'ambiguo Ross, un cugino di Macduff nonché messaggero del Re; le tre streghe/parche sono un'unica orrida creatura abitata da più personalità (stupenda la performance di Kathryn Hunter), che ricorda nelle movenze una possessione demoniaca, con una stupenda resa visiva della scena della maledizione, della profezia, che depone nella mente di Macbeth il seme della follia.
Si potrebbe accusare il regista di aver fatto della tragedia una versione di rarefatto snobismo, dove la messa in scena è tanto asciugata ed elegante per evitare il rischio di un effetto Game of Thrones. Ma la bellezza delle immagini è indubbia e la bravura dei protagonisti pure. Però tutta questa bellezza formale toglie passione alla vicenda e così per noi resta superiore (quanto a impatto emotivo) il film di Kurzel, dove la violenza estrema dei combattimenti lasciava preludere a ogni nefandezza, il protagonista precipitava in una crisi più lacerante e la coppia era legata da una tangibile passione, mentre Whashington/McDormand sembrano sempre più compagni nel crimine che amanti.
Non si pensi però che dire tragedia, Shakespeare, teatro, bianco e nero, equivalga automaticamente a storie polverose, a pretese intellettualistiche e a noia. Perché le efferatezze dei crimini sono degne di un horror attuale, la ferocia e la sete di potere, i tradimenti e le menzogne sono il tema portante di mille film di gangster e spacciatori, gli intrecci sentimentali sono terribili come nel più attuale dramma domestico.
Quindi non c'è mai nulla di datato, di incomprensibile, di astratto in Shakespeare, e in ogni sua opera ci sono frasi memorabili, che toccano la mente e il cuore. E spesso guardando una nuova trasposizione viene voglia di cercare le differenze con le versioni precedenti (qui i precedenti sono Orson Welles e Roman Polansky).
E così, per chiudere, una riflessione fuori contesto: ci lamentiamo spesso di Internet, la rete su cui si appoggiano i social attraverso i quali tracima il peggior liquame. Ma è proprio attraverso il web che possiamo soddisfare ogni nostra curiosità, con un clic recuperare cose perdute, colmare lacune, soddisfare ogni curiosità senza neanche uscire di casa, e trovare informazioni, leggere testi, vedere film, serie tv, ascoltare musiche, impiegare insomma virtuosamente il tempo in più che spesso ci ritroviamo fra le mani, senza mai annoiarci e nutrire così le nostre anime che, non dimentichiamo, sono fatte (anche) della stessa materia di cui sono fatti i sogni....