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Top Gun Maverick recensione, feel the need for speed

L’eroe e il suo viaggio.

Ce lo saremo chiesto qualche volta, uscendo dopo aver visto un film: chissà come finiranno i protagonisti? Saranno poi davvero diventati amici Rick e il Capitano Renault in Casablanca? E Rossella cosa avrà deciso di fare domani, che è sempre un altro giorno? La relazione fra Julia Roberts e Richard Gere chissà come è andata a finire. E quali mete avrà raggiunto a passo spedito Keyser Söze, una volta uscito dal commissariato? Avrà trovato compagnia il Cavaliere solitario, per cavalcare verso il solito tramonto?

Nel 1986 abbiamo lasciato Tom Cruise, vincente anche se maturato dalle sue avventure, pronto a scatenarsi con la sua moto sulle strade lungo la costa di San Diego per correre ad abbracciare la sua amata, rigorosamente stagliato contro lo spettacolare tramonto di Point Loma. Ci siamo mai chiesti cosa avrebbe fatto “da grande”? Sarebbe finito in Bosnia, in Iraq, avrebbe tenuto la testa a posto o sarebbe rimasto per sempre un “maverick”, uno che “pensa e agisce in modo indipendente, comportandosi spesso diversamente da quello previsto”? Lui nel finale del film dichiarava che avrebbe voluto fare l’istruttore, ma c’era da fidarsi?

Invecchiano gli eroi?

Il primo film, grandissimo successo, forte della regia di Tony Scott e di una colona sonora di hit eccezionali (premio Oscar, infatti), nel 2015 è stato scelto dalla Biblioteca del Congresso per la conservazione nel National Film Registry perché “culturalmente, storicamente o esteticamente significativo”. Sull’estetica siamo d’accordo e aggiungeremmo anche l’importanza come testimonianza di costume. Chissà quante volte nei decenni successivi qualcuno ha pensato a ricavarne un sequel (una sceneggiatura in effetti era stata scritta subito dopo, ma in seguito la morte di Tony Scott aveva complicato le cose). Un passo alla volta quel tempo è arrivato.

Ritroviamo Pete Mitchell, con il solo grado di Capitano di vascello ma pluridecorato, che durante il collaudo di un X-43 (l’aereo ad ala) compie l’ennesimo atto di insubordinazione davanti a un Ammiraglio (Ed Harris) e per punizione viene rispedito a San Diego, proprio nella sua ex scuola di Top Gun, come istruttore di un selezionato gruppetto di giovani piloti, già eccezionali. Insieme dovranno compiere una rischiosa missione in un non meglio precisato “stato canaglia”, per distruggere un sito clandestino di stoccaggio per l’uranio (fa quasi tenerezza che non si osi dare una nazionalità precisa ai “cattivi” della storia). Maverick è stato voluto in quella posizione dall’amico Ice, divenuto anche lui Ammiraglio, ruolo per il quale Cruise ha fortemente voluto di nuovo Val Kilmer, riuscendo anche a fargli recitare qualche battuta (Kilmer è stato afflitto da un cancro alla gola).

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Maverick ritrova il passato, l’atmosfera di allora, le prove di forza fra i giovani piloti con la sindrome da padreterno, fra cui due donne, i capi intransigenti e severi (un altro Ammiraglio, interpretato da Jon Hamm) e anche la proprietaria del bar del posto (la splendida 51enne Jennifer Connelly), con la quale ha avuto ondivaghi trascorsi. Soprattutto però trova, nel suo corso, il figlio del suo amico Goose, morto nel film precedente (un ostile Miles Teller). Quel passato presenta i conti. Tante cose sono rimaste uguali, tante sono cambiate. Come lui, che per alcuni aspetti è cambiato ma la parte che è rimasta la stessa non si rapporta più con un mondo diverso.

Il film si apre con una sequenza simile all’originale (e si chiude in memoria di Tony Scott), perché si cita, quasi si clona volutamente, ma si riprende dando ombre diverse al protagonista, pur militare fino al midollo e quindi portatore di tutta l’obbligata retorica di genere (come in fondo lo è stato in era reaganiana). Come allora anche adesso la trama militare è puro pretesto. Altro è il punto e saggio è stato spostare il mirino. Non più solo adrenaliniche acrobazie aeree, tensione sessuale in varie direzioni, rivalità fra maschi alfa, mitizzazione di un mestiere per pochi, spettacolari sequenze di decolli e atterraggi sulle portaerei, corse in Kawasaki a tutta velocità, muscolari partite di beach volley, rossi tramonti dell’Ovest, oceano Pacifico e palme, Ray-Ban e Schott, colonna sonora incalzante.

I nuovi eroi raggiungeranno le altezze di chi li ha preceduti?

Qui il punto è che, circondato da milioni di dollari di materiale e tecnologia, c’è sempre un essere umano ed è lui a fare la differenza, che si tratti di pilotare un modernissimo F/A -18 Super Hornet o un “antico” F 14. Così come per il film, se ai comandi c’è Tom-Maverick-Cruise, come se lui fosse un anello di congiunzione fra un attore “vero” che interpreta la maggior parte delle scene d’azione di persona con parco uso di CGI (modo di fare i film che sta lentamente estinguendosi) e il nuovo cinema dei green screen dove gli attori recitano nel vuoto, nel parallelo con i piloti di un’era che sta per finire, prossimi a essere sostituiti dai droni.

Top Gun – Maverick è un film da grande grandissimo schermo per eccellenza, da Dolby Atmos possibilmente, per amanti del cinema vero che è quello fuori casa (come non si stanca di dire Cruise nelle sue interviste). Dirige Joseph Kosinski, già con Cruise in Oblivion, regista anche di Tron: Legacy e Fire Squad, la sceneggiatura è scritta da Ehren Kruger ed Eric Warren Singer insieme a Christopher McQuarrie, alla sua settima collaborazione con Cruise. Ma indubbia è l’influenza di Cruise come produttore e nel suo stile, in base al suo “credo”, tutti gli interpreti dei piloti hanno affrontato un training su veri aerei per essere più credibili nelle scene girate realmente ad alta velocità, anche se l’aereo era ovviamente pilotato da un professionista.

Il cielo come limite, da superare.

Fra i produttori figura ancora lo “storico” Jerry Bruckheimer, che nel logo della sua Company mantiene il nome del socio Don Simpson, nel frattempo deceduto. Quanto alle musiche, Zimmer mixa e, anche lui, riprende il tema classico di Harold Feltermeyer e quello nuovo della canzone di Lady Gaga, Hold My Hand, che si sente in background durante il film, così come altre hit del passato fra cui Let’s Dance di Bowie e Danger Zone di Kenny Loggins. A confermare un omaggio agli anni ’80, che prosegue con la Porsche Carrera del finale e il volo sul piccolo aeroplanino a motore, di dimensione più umana.

Comparto sonoro spettacolare, che si impone all’attenzione nelle scene di combattimento, così come il montaggio (la parte conclusiva del film infatti, circa 40 minuti, è un film di guerra vero e proprio). Annunciato per estate 2019, rimandato per perfezionare alcuni dettagli tecnici, poi caduto sotto la mannaia pandemica, è finalmente uscito due anni dopo, con trionfale premiére a Cannes, con Palma d’oro alla carriera a Cruise e tanto di Frecce a lasciare in cielo le scie con i colori della bandiera francese.

Oggi anche le donne osano insieme alle aquile.

Tom Cruise, quasi 60 anni, è “cresciuto” bene, la forma fisica si mantiene, sempre lavorandoci sopra molto (ammiratelo quando con civetteria si espone al confronto con i giovani del cast nella classica partita di beach volley), ma per la faccia c’è il rischio che i ritocchi inevitabili la snaturino, rischio assai ben evitato da Cruise, magari per pura fortuna biologica. Ma questo lo rende ancora più credibile nel suo ruolo. Un uomo, un attore, un personaggio, che ben si rende conto del passare del tempo, da giovane arrogante che aveva davanti a sé tutto il tempo del mondo, a divo universale con l’obbligo al “forever young”.

All’interno di una gerarchia sempre uguale nella sua rigidità, tutto è cambiato, non c’è futuro per gli eroi (piloti veri), il domani è in mano agli impiegati, anche se addestratissimi (droni). Il bello (egoisticamente inteso) è alle spalle, chi ha avuto la fortuna di esserci si congratuli con se stesso. Invecchiare dobbiamo tutti, qualunque mestiere facciamo, in qualunque modo abbiamo condotto la nostra vita. Meglio quindi aver vissuto al massimo e avere un bel passato da lasciarsi alle spalle. Lezione che potrebbe infastidire se data da un divo come Cruise, che però per la sua evoluzione attraverso i decenni si è impegnato tantissimo e parla a ragion veduta. Ma molto saggia e da prendere sul serio più di quanto si potrebbe credere.

Top Gun: Maverick non è quindi una copia enhanced, ma un ritorno con nostalgia, dove non pesano i cliché, per un viaggio sulla memory lane anche per lo spettatore, che avrà modo di riflettere su quanto sia cambiato in questi anni, se ancora riesce a farsi coinvolgere. Sono tempi tristi, più che preoccuparci, arrabbiarci, indignarci, vaccinarci, intristirci, non facciamo. Meno male che qualcuno ha pensato a farci emozionare ancora una volta, come una volta.