Tyler Rake - recensione
Quell'ultimo ponte.
Siamo in Bangladesh, nella capitale Dhaka (Dacca), agglomerato urbano da 15 milioni di abitanti, circondata da fiumi e quindi da ponti e pertanto ben difendibile.
Là incontriamo Ovi, ragazzino da scuola privata di lusso, casa di glaciale eleganza, totale vuoto affettivo, accudito da un tutore severo, incaricato di crescere il ragazzo mentre il padre, super-narcotrafficante, è in galera.
Ma un rivale ferocissimo insidia il suo primato e gli fa rapire il figlio. Per recuperarlo viene ingaggiata un'agenzia internazionale, che fra i suoi contatti ha Tyler Rake (il nome è anche il secondo titolo del film), ex combattente al quale ne sono capitate tante che ha perso la voglia di vivere.
L'agenzia è di eccezionale affidabilità ma tanta inesorabile efficienza costa ed è proprio questo il problema che paradossalmente porterà al tracollo dell'operazione. Senza capire come e perché, Tyler si ritrova da solo a fronteggiare un nugolo di avversari che a loro volta vogliono mettere le mani su Ovi.
Le cose si complicano in modo tale che nemmeno il ragazzo sa più di chi fidarsi e istintivamente sceglie bene, perché sceglie Tyler, un uomo che da solo ha una potenza di fuoco pari a quella di un intero battaglione.
È una scelta difficile perché Tyler non fa nulla per ingraziarsi le simpatie di Ovi, che per lui è solo un pacco da consegnare, l'ennesimo incarico accettato sperando che finisca male per lui.
Quindi, mentre fuggono insieme a rotta di collo durante i due giorni in cui si apre e si chiude l'azione, passando miracolosamente quasi indenni attraverso scontri apocalittici (c'è una bella fuga attraverso un labirintico complesso di abitazioni), nei pochissimi attimi di tregua costruiranno un esile rapporto, che però per Ovi sarà ben più di quanto non sia mai riuscito a fare con il padre. Tutto culminerà sull'ultimo ponte che permetterebbe la fuga, dove tutti si troveranno radunati in un drammatico finale.
Più che i molti film sul tema, da Gladiator passando per John Wick, senza considerare i tanti film con Bruce Willis che spesso ha rivestito ruoli da eroe disilluso (e che nel 2015 ha girato un film con lo stesso titolo), questo Extraction/Tyler Rake ci ha ricordato Man on Fire, la violenta storia diretta da Tony Scott con Denzel Washington.
E un po' anche Red Zone con Mark Wahlberg, per il tema della fuga dal dedalo di strade di una città posta sotto assedio. Chris Hemsworth, meno massiccio che nei panni di Thor, si impegna per dare un po' di spessore al suo personaggio, non cambiando molto espressione da quando è silenziosamente disperato a quando diventa una macchina di guerra.
Per il resto, mai una gioia. Il suo responsabile, con un debole nei suoi confronti (e come non condividere) è la bellissima Golshifteh Farahani. Il ragazzino conteso è Rudhraksh Jaiswal. Randeep Hooda è l'ambiguo tutore. A metà film appare brevemente David Harbour, un amico di Tyler mercenario pure lui, attore che fa film dal 2002 ma è arrivato alla notorietà solo con Stranger Things e come sempre ringraziamo le serie tv che hanno dato visibilità a interpreti fino a quel momento tenuti in disparte.
Il film, girato fra Mumbai, Ahmedabad, Dacca e la Thailandia, è prodotto dai Fratelli Russo, quelli di due Captain America (Winter Soldier e Civil War), due Avengers (Infinity War, Endgame) e un Ant-Man, mentre la sceneggiatura è scritta dal solo Joe, che si è ispirato al fumetto Ciudad, scritto insieme al fratello e disegnato da Fernando León González. Dirige Sam Hargrave, direttore di scene di stunt (in grandi produzioni), attore in piccole particine, sceneggiatore e regista di corti, e lo fa come fosse routine, e non promette male, sempre all'interno di un certo genere di film.
C'è sempre una memoria dolorosa, una qualche insopportabile sciagura persa nel passato dei tanti gladiatori stanchi, dei samurai ligi al dovere, che letteratura e cinema non si stancano mai di proporci. Personaggi perfetti per storie di eroismo suicida perché cosa c'è di meglio che mettere a rischio qualcosa di cui non sai che fartene, ossia la tua vita?
Quindi ecco molto melodramma, vivacizzato da un sacco di azione, lunghi inseguimenti, scene di combattimento, crash vari, sparatorie, esplosioni e qualche ammazzamento crudele. Ed è dal difficile equilibrio fra tutti questi elementi che si gioca la riuscita dell'ennesimo film sull'argomento, e qui a tratti il melò sembra predominante.
Ma in tempi di divano obbligato ci siamo accinti volentieri alla visione di un film formato esclusivamente da mille pezzi di altre storie e da tutta la ricercata retorica di genere, che mantiene quanto promette in un'accelerazione drammatica che si prende molto sul serio, pur nella totale prevedibilità dei vari passaggi narrativi. Incluso il finale, così veloce che pare quasi subliminale: meno male che su Netflix si può sempre fare rewind.